Erano le dodici di sabato 4 dicembre 2010. Dopo quattro giornate di congresso, i medici del lavoro avevano finalmente raggiunto l'orario fissato per ottenere i crediti formativi, e con la scheda delle risposte ai quiz diligentemente compilata si erano messi in fila davanti all'addetto al rilascio. Centinaia di medici, forse più di un migliaio, avevano rapidamente riempito la stanza, il corridoio, le scale, deragliando in una fila caotica e interminabile fino al piano superiore. Le dodici e trenta. Nella fila praticamente immobile, schiacciati in un corridoio senza finestre, già col soprabito e con la borsa da viaggio, i più vagotonici cominciavano a dare segni di deliquio. Cosa poteva averli ridotti in quello stato? Non era facile trovare una risposta. Certo che il caos, il disagio, lo spreco di energie non erano esperienze nuove per nessuno di loro. Anzi, l'inattesa conclusione del 73° Congresso Nazionale era quasi emblematica dello stato della disciplina, soffocata da interessi contingenti e costretta a percorsi obbligati da un delirio normativo che non ha riscontri nel mondo. Nei giorni immediatamente precedenti al Congresso, ad esempio, il Ministero aveva espresso le proprie indicazioni sulla valutazione dello stress da lavoro, su conforme parere della Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro (2). Il lavoro della Commissione consultiva era stato lungo e molto, ma proprio molto faticoso. Del resto è quasi sempre così. Nel nostro paese, le commissioni che si occupano di medicina del lavoro sono composte in prevalenza da non medici. E se poi proprio càpita che tra i componenti ci sia un medico del lavoro, si ha cura che non abbia qualificazione accademica né esperienza come medico competente e non abbia mai pubblicato nulla sull’argomento. Nella commissione sullo stress c'era di tutto, anche un esperto di mineralogia, fuorché un esperto di stress. Il problema, poi, richiedeva un difficile bilanciamento di interessi. Gli psicologi avevano drizzato le antenne con l'emanazione del D.Lgs 81/08, e rivendicavano un ruolo da protagonista nel processo di valutazione del rischio. Le aziende ricordavano che c’è la crisi e che non avrebbero potuto sobbarcarsi ulteriori oneri. I Servizi di prevenzione, finora impegnati non senza difficoltà (3) nella valutazione dei rischi fisici, chimici e biologici, chiedevano insistentemente lumi. Il Legislatore dal canto suo aveva già reso le cose più difficili che in tutto il resto del mondo, imponendo sanzioni penali non solo sul globale processo di prevenzione, ma anche su ogni suo singolo passo. Dunque, come misurare lo stress, un fenomeno soggettivo e variabile nel tempo, scrivendo il risultato una volta per tutte su un documento cartaceo da tutti sottoscritto, magari con “data certa”? Se il quesito fosse stato rivolto ad un qualunque medico, anche appartenente a quella infima categoria priva di specializzazione una volta indicata come “medico di fabbrica”, questi avrebbe proposto il metodo che la medicina, da Esculapio in poi, prevede per i disturbi soggettivi: chiedere agli interessati. Ma, per l'appunto, le Commissioni procedono in un modo diverso. Il pericolo di una legione di psicologi arruolati in tutta fretta per testare i lavoratori o, ancora più grave, quello degli ingegneri muniti di test psicologici, era da scongiurare. Ed è stato scongiurato, con un vero colpo del genio italico: l'invenzione degli indicatori obiettivi. Chi mai, infatti, avrebbe pensato a misurare un fenomeno soggettivo mediante un indicatore obiettivo? Certo non un medico. Nessun medico misurerebbe la frequenza del mal di testa sulla base della vendita di analgesici nella farmacia comunale. Ma è proprio quello che è stato deciso per quanto riguarda lo stress lavoro-correlato. La Commissione difatti stabilisce che la valutazione consista “nella rilevazione di indicatori oggettivi e verificabili, ove possibile numericamente apprezzabili”, e propone un elenco lungo, ma non esaustivo, di tali “indicatori”, nel quale si incontrano eventi-sentinella, fattori di contenuto, fattori di contesto. Nulla di male, se non fosse che quelli proposti non sono indicatori, ma (forse) effetti, (forse) concause di stress. Non sono obiettivi, perché generalmente mancano le prove scientifiche di una relazione con lo stress. Dobbiamo considerarli variabili da correlare allo stress da lavoro, proprio per obiettivare l’eventuale relazione tra lo stress da lavoro e questi eventi-sentinella o questi fattori. Dopo la Circolare, nei tempi ristretti ancora rimasti, molti servizi di prevenzione si sono affrettati a raccogliere dati sulle assenze per malattia e sugli infortuni e hanno buttato giù due paginette per dire che il problema dello stress è sotto controllo. Altri, meno zelanti, hanno espresso il proponimento di tenere conto degli indicatori obiettivi, ma solo dal 31 dicembre in poi. Altri infine si sono affaticati nella compilazione di una check-list computerizzata che comprende le istanze giudiziarie per licenziamento, la possibilità di utilizzare una navetta aziendale, le visite su richiesta al medico competente, la prevalenza del part-time, la diffusione dell’organigramma aziendale, le ferie non godute, il microclima ed altri 70 fattori ambientali ed organizzativi e contiene un magico algoritmo che trasforma questa accozzaglia di dati in un indicatore colorato: verde, non c'è stress; giallo, sì, c'è un pochino di stress, rosso, ahi ahi pericolo, c'è tanto stress (1). In questi casi, niente paura, la Commissione permanente ci avverte che il datore di lavoro dovrà intraprendere “misure di correzione”, quali e quante siano lo deciderà lui stesso con la sua innata conoscenza dello stress e dei problemi organizzativi, e quindi, ma solo nel caso che questo intervento sia (dallo stesso datore di lavoro) ritenuto inefficace, sarà possibile attivare la “fase eventuale” di valutazione della soggettività dei lavoratori. Cosa può fare il medico del lavoro in tutto ciò? Apporre come al solito la firma sul Documento di Valutazione dei rischi, che gli viene presentato già stampato, con tante scempiaggini? E' la scelta più semplice. Gli organi di vigilanza sanzionano la mancanza di firma del medico, come gli occhiuti gendarmi del paese di Acchiappacitrulli, ma generalmente non vanno oltre un'occhiata alla prima e all'ultima pagina del Documento. Che già contiene, in troppi casi, valanghe di frasi generate col sistema del “copia-incolla” al solo scopo di renderne indigesta la lettura. Oppure far valere la propria competenza, rafforzata in un Congresso nel quale ben 43 relazioni trattavano di stress e 24 del ruolo del medico competente, per rivendicare un ruolo attivo nell'analisi dei dati soggettivi e nella valutazione del rischio, secondo le buone prassi di medicina del lavoro? (4-5). Ai posteri, l'ardua sentenza. Intanto è bene mettersi in fila, e riscuotere i crediti. E' uno stress anche questo.
Magnavita, N., [Risk assessment], <<LA MEDICINA DEL LAVORO>>, 2011; 102 (3): 297-298 [http://hdl.handle.net/10807/5967]
[Risk assessment]
Magnavita, Nicola
2011
Abstract
Erano le dodici di sabato 4 dicembre 2010. Dopo quattro giornate di congresso, i medici del lavoro avevano finalmente raggiunto l'orario fissato per ottenere i crediti formativi, e con la scheda delle risposte ai quiz diligentemente compilata si erano messi in fila davanti all'addetto al rilascio. Centinaia di medici, forse più di un migliaio, avevano rapidamente riempito la stanza, il corridoio, le scale, deragliando in una fila caotica e interminabile fino al piano superiore. Le dodici e trenta. Nella fila praticamente immobile, schiacciati in un corridoio senza finestre, già col soprabito e con la borsa da viaggio, i più vagotonici cominciavano a dare segni di deliquio. Cosa poteva averli ridotti in quello stato? Non era facile trovare una risposta. Certo che il caos, il disagio, lo spreco di energie non erano esperienze nuove per nessuno di loro. Anzi, l'inattesa conclusione del 73° Congresso Nazionale era quasi emblematica dello stato della disciplina, soffocata da interessi contingenti e costretta a percorsi obbligati da un delirio normativo che non ha riscontri nel mondo. Nei giorni immediatamente precedenti al Congresso, ad esempio, il Ministero aveva espresso le proprie indicazioni sulla valutazione dello stress da lavoro, su conforme parere della Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro (2). Il lavoro della Commissione consultiva era stato lungo e molto, ma proprio molto faticoso. Del resto è quasi sempre così. Nel nostro paese, le commissioni che si occupano di medicina del lavoro sono composte in prevalenza da non medici. E se poi proprio càpita che tra i componenti ci sia un medico del lavoro, si ha cura che non abbia qualificazione accademica né esperienza come medico competente e non abbia mai pubblicato nulla sull’argomento. Nella commissione sullo stress c'era di tutto, anche un esperto di mineralogia, fuorché un esperto di stress. Il problema, poi, richiedeva un difficile bilanciamento di interessi. Gli psicologi avevano drizzato le antenne con l'emanazione del D.Lgs 81/08, e rivendicavano un ruolo da protagonista nel processo di valutazione del rischio. Le aziende ricordavano che c’è la crisi e che non avrebbero potuto sobbarcarsi ulteriori oneri. I Servizi di prevenzione, finora impegnati non senza difficoltà (3) nella valutazione dei rischi fisici, chimici e biologici, chiedevano insistentemente lumi. Il Legislatore dal canto suo aveva già reso le cose più difficili che in tutto il resto del mondo, imponendo sanzioni penali non solo sul globale processo di prevenzione, ma anche su ogni suo singolo passo. Dunque, come misurare lo stress, un fenomeno soggettivo e variabile nel tempo, scrivendo il risultato una volta per tutte su un documento cartaceo da tutti sottoscritto, magari con “data certa”? Se il quesito fosse stato rivolto ad un qualunque medico, anche appartenente a quella infima categoria priva di specializzazione una volta indicata come “medico di fabbrica”, questi avrebbe proposto il metodo che la medicina, da Esculapio in poi, prevede per i disturbi soggettivi: chiedere agli interessati. Ma, per l'appunto, le Commissioni procedono in un modo diverso. Il pericolo di una legione di psicologi arruolati in tutta fretta per testare i lavoratori o, ancora più grave, quello degli ingegneri muniti di test psicologici, era da scongiurare. Ed è stato scongiurato, con un vero colpo del genio italico: l'invenzione degli indicatori obiettivi. Chi mai, infatti, avrebbe pensato a misurare un fenomeno soggettivo mediante un indicatore obiettivo? Certo non un medico. Nessun medico misurerebbe la frequenza del mal di testa sulla base della vendita di analgesici nella farmacia comunale. Ma è proprio quello che è stato deciso per quanto riguarda lo stress lavoro-correlato. La Commissione difatti stabilisce che la valutazione consista “nella rilevazione di indicatori oggettivi e verificabili, ove possibile numericamente apprezzabili”, e propone un elenco lungo, ma non esaustivo, di tali “indicatori”, nel quale si incontrano eventi-sentinella, fattori di contenuto, fattori di contesto. Nulla di male, se non fosse che quelli proposti non sono indicatori, ma (forse) effetti, (forse) concause di stress. Non sono obiettivi, perché generalmente mancano le prove scientifiche di una relazione con lo stress. Dobbiamo considerarli variabili da correlare allo stress da lavoro, proprio per obiettivare l’eventuale relazione tra lo stress da lavoro e questi eventi-sentinella o questi fattori. Dopo la Circolare, nei tempi ristretti ancora rimasti, molti servizi di prevenzione si sono affrettati a raccogliere dati sulle assenze per malattia e sugli infortuni e hanno buttato giù due paginette per dire che il problema dello stress è sotto controllo. Altri, meno zelanti, hanno espresso il proponimento di tenere conto degli indicatori obiettivi, ma solo dal 31 dicembre in poi. Altri infine si sono affaticati nella compilazione di una check-list computerizzata che comprende le istanze giudiziarie per licenziamento, la possibilità di utilizzare una navetta aziendale, le visite su richiesta al medico competente, la prevalenza del part-time, la diffusione dell’organigramma aziendale, le ferie non godute, il microclima ed altri 70 fattori ambientali ed organizzativi e contiene un magico algoritmo che trasforma questa accozzaglia di dati in un indicatore colorato: verde, non c'è stress; giallo, sì, c'è un pochino di stress, rosso, ahi ahi pericolo, c'è tanto stress (1). In questi casi, niente paura, la Commissione permanente ci avverte che il datore di lavoro dovrà intraprendere “misure di correzione”, quali e quante siano lo deciderà lui stesso con la sua innata conoscenza dello stress e dei problemi organizzativi, e quindi, ma solo nel caso che questo intervento sia (dallo stesso datore di lavoro) ritenuto inefficace, sarà possibile attivare la “fase eventuale” di valutazione della soggettività dei lavoratori. Cosa può fare il medico del lavoro in tutto ciò? Apporre come al solito la firma sul Documento di Valutazione dei rischi, che gli viene presentato già stampato, con tante scempiaggini? E' la scelta più semplice. Gli organi di vigilanza sanzionano la mancanza di firma del medico, come gli occhiuti gendarmi del paese di Acchiappacitrulli, ma generalmente non vanno oltre un'occhiata alla prima e all'ultima pagina del Documento. Che già contiene, in troppi casi, valanghe di frasi generate col sistema del “copia-incolla” al solo scopo di renderne indigesta la lettura. Oppure far valere la propria competenza, rafforzata in un Congresso nel quale ben 43 relazioni trattavano di stress e 24 del ruolo del medico competente, per rivendicare un ruolo attivo nell'analisi dei dati soggettivi e nella valutazione del rischio, secondo le buone prassi di medicina del lavoro? (4-5). Ai posteri, l'ardua sentenza. Intanto è bene mettersi in fila, e riscuotere i crediti. E' uno stress anche questo.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.