La persona che devo visitare è in ritardo, mi ha telefonato per dirmi che è bloccata nel traffico. È una giovane signora, che qualche mese fa ha avuto una diagnosi di carcinoma metastatizzato. Dopo la chirurgia, la chemioterapia, il trattamento radiante e quello ormonale tuttora in corso, scatta l’obbligo di legge di una nuova visita prima che possa essere esposta al rischio di “lavoro con terminale video”. Da vecchio medico del lavoro che ha visto tanti ammalarsi ancor giovani e morire di malattie professionali, continuo ad essere convinto che il videoterminale, se qualcuno non te lo tira in testa, non può farti un gran male. E so che i video moderni non sono quegli infernali strumenti a fosfori verdi davanti ai quali ho passato migliaia di ore nella gioventù, ma pervasivi dispositivi dai quali mia nipote, che non ha ancora tre anni, trae giochi, canzoni e fotografie. Un direttore incapace o colleghi invidiosi sono molto più nocivi di un videoterminale. Personalmente ho sempre cercato di trasformare la visita con esame ergo-oftalmologico “di legge” in un intervento di promozione della salute, dandole cadenza annuale. Ma mi sono spesso scontrato con Responsabili dei Servizi di Prevenzione tesi a convincere il datore di lavoro che, aumentando la frequenza delle visite, io stessi facendo qualcosa di diverso o magari di contrario alla legge. Quanto alle visite dopo malattia, già negli anni ’70 da medico di fabbrica avevo disposto che gli operai si presentassero a visita indipendentemente dalla convocazione ogni volta che avevano un problema di salute. C’era proprio bisogno di una sanzione penale per l’omissione di qualcosa che il medico del lavoro ha sempre fatto, quando ce ne è stato bisogno? Ma tant’è! Lungi da me l’idea di oppormi ad una legge dello Stato, anche se ritengo idiota costringere una donna che ha dovuto sopportare il trauma di una diagnosi impietosa quando si ha un figlio di cinque anni ed uno di pochi mesi ad impegnare una giornata della sua vita in ossequio alla burocrazia. Nell’attesa, sfoglio “La Medicina del Lavoro”. Ecco una Lettera interessante sul ruolo del medico competente [1]. Viene definito centrale. Vediamo un po’. Collaborazione alla valutazione dei rischi. “Di fatto nella grande maggioranza dei casi la valutazione dei rischi (VDR) viene ad essere svolta senza il contributo del MC”. Una bella centralità, non c’è che dire. Ma ecco: “a rafforzare la necessità della sua presenza, è l’obbligo di firma che il MC deve apporre in calce allo stesso, che ha un significato di condivisione dei rischi descritti e quindi di una precisa responsabilizzazione su quanto riportato…” Benissimo, ho capito. Il MC non conta nulla, ci pensa il “Servizio Prevenzione e Protezione (SPP) a rendere subalterno e marginale il suo ruolo”, ma il MC ha la piena responsabilità penale di quanto il SPP scrive ed il Datore di Lavoro sottoscrive. Nelle non poche occasioni in cui non condividevo l’identificazione dei rischi, le modalità di misurazione o i risultati del DVR, ho sempre messo per iscritto le mie indicazioni, che sono state peraltro quasi sempre disattese o ignorate. Mi sono quindi trovato innumerevoli volte nella condizione di non condividere un DVR che ho l’obbligo di sottoscrivere. Particolare non trascurabile, ho poi l’obbligo di redigere un Piano Sanitario: potrò farlo allora sulla base delle mie opinioni e degli elementi che ricavo dal sopralluogo, o devo piegarmi a quello che suggerisce l’RSPP? La Lettera non me lo chiarisce. Gli Autori questo stato di cose però lo conoscono bene, infatti dicono che quello del MC “è un obbligo generalmente poco valorizzato e poco rispettato, lasciando un vuoto che viene colmato da altri consulenti aziendali anche senza averne i presupposti di conoscenza”. Naturalmente ciò comporta “notevoli conseguenze sulla qualità della valutazione”. Gli Autori certo si saranno accorti che il DVR è il culmine di un processo che io chiamo “la svalutazione del rischio”: un ponderoso volume di problematica lettura, che esamina decine di potenziali agenti lesivi per concludere che nessun rischio professionale è rilevante. Il rumore industriale è virtualmente scomparso, se ricordate il convegno di Roma del 29 settembre 2011 (a 20 anni dal D.Lgs. 277/91) “Che fine ha fatto il rumore?”. Lo stress è obbligatoriamente valutato, in forza di una Circolare Ministeriale, con un metodo che non ha riscontri in letteratura e non è basato sull’evidenza. Gli altri rischi sono generalmente valutati con algoritmi dai risultati tranquillizzanti. Se fosse per i DVR che sottoscrivono, i MC non dovrebbero fare una sola visita. Dunque, nella pratica, “il ruolo del MC si sposta sul piano della sorveglianza sanitaria”, ma purtroppo non “da interlocutore principale per la gestione dei rischi per la salute”, forse piuttosto da corpo estraneo di un sistema che lo esclude da processi dei quali pure è responsabile. Chi sa se gli Autori si sono accorti del fatto che la Pubblica Amministrazione è obbligata per legge ad acquistare la sorveglianza sanitaria online con la Consip e che un unico fornitore si è aggiudicato l’80% del mercato nazionale. O che nel settore privato le Società di Servizi che dominano il mercato erogano visite mediche con giudizi di idoneità eseguite da specialisti di loro fiducia, togliendo quindi ai committenti ogni possibilità di relazionarsi al MC. Ma anche in quei casi fortunati e sempre meno frequenti nei quali il MC è scelto dal datore di lavoro, quali sono le informazioni sul rischio che egli riceve dal SPP, in aggiunta a quanto egli stesso ricava, per scienza e coscienza, dal sopralluogo o dall’anamnesi dei lavoratori? Con incrollabile fede, gli Autori ci ricordano che l’all. 3A, contiene “soprattutto la sezione complessa di anamnesi lavorativa con la dettagliata descrizione dei rischi professionali, dei tempi di esposizione e dei livelli di esposizione individuali, con l’art. 186 rischi fisici e 230 rischio chimico, peraltro sanzionati se mancanti”. Con sanzione (questo gli Autori non lo dicono chiaramente) a carico del MC che non ha registrato, non del SPP che non ha fornito, la “dettagliata descrizione” di cui sopra. Dal canto suo, il MC esegue “con una certa frequenza…accertamenti medici non giustificati dalla presenza di un rischio professionale” e istituisce cartelle sanitarie e di rischio “dalla compilazione incompleta o inadeguata, fino a volte alla completa illeggibilità grafica”. La “scarsa attenzione sull’anamnesi lavorativa, che in genere investe tutto il sistema sanitario” porta alla sottonotifica degli infortuni e delle malattie professionali, spesso per “la paura di ritorsioni da parte del DdL”. In questo quadro, non capisco come sia possibile affermare che “La raccolta e la trasmissione dei dati aggregati sanitari e di rischio…consente al MC…di valorizzare il suo ruolo all’interno del processo aziendale di gestione della salute fisica e psico-sociale dei lavoratori”. Non è possibile confondere i dati aggregati, da trasmettere con l’Allegato 3b al SSN, con i dati anonimi collettivi, da presentare al DdL, al SPP e ai RLS. Certamente questi ultimi, se raccolti con metodi epidemiologici corretti e analizzati statisticamente, rappresentano un contributo di capitale importanza nel miglioramento della qualità della vita lavorativa. Ma ho forti dubbi che i primi, cioè i dati aggregati previsti dall’allegato 3b, possano fornire “importanti informazioni epidemiologiche sui rischi e sui danni per la salute dei lavoratori, permettendo una reale mappatura dei rischi presenti nel territorio locale e nazionale”, “monitorare il livello quantitativo dell’attività di sorveglianza sanitaria” e addirittura produrre “un risultato di estrema rilevanza sanitaria e sociale”, perché lo strumento proposto, nonostante il “sofferto iter normativo durato due anni”, presenta ancora i clamorosi difetti strutturali che avevo segnalato quattro anni fa [2, 3]: ad esempio, una voce dedicata agli infrasuoni, ma nessuna alle radiazioni ionizzanti. Da una epidemiologia d’accatto, è lecito attendersi solo risultati d’accatto. Come siamo arrivati a questo poco encomiabile risultato, a vent’anni dal recepimento delle Direttive europee con le quali avremmo dovuto estendere all’Italia la metodologia scandinava di gestione del rischio da lavoro? Il grande fraintendimento è stato ignorare che il sistema di prevenzione Nord-europeo si basa, sin dalla sua nascita negli anni ’40, sulla pari dignità di lavoratori e datori di lavoro: è un sistema orizzontale, democratico, partecipativo, nel quale il rappresentante dei lavoratori (RLS) e quello del datore di lavoro (RSPP) sono due tecnici che hanno spesso frequentato la stessa scuola, parlano lo stesso linguaggio e condividono l’esigenza di ottenere il miglior livello di prevenzione con il minore costo. Lo Stato, la magistratura e i carabinieri a cavallo non hanno alcun ruolo in un processo sociale regolamentato da pochissime leggi di carattere generale. La nostra mentalità e la struttura sociale piramidale, gerarchizzata e immobile ci hanno indotto a credere che sarebbe stato facile imporre la prevenzione mediante il diritto penale. In realtà, tutto quello che possiamo imporre per legge è l’adesione formale ad alcune ritualità, ma non il cambiamento di mentalità. Il diritto penale è, fra tutte le forma di diritto, quella più primitiva e barbarica, la mosaica “legge del taglione” che Gesù Cristo duemila anni fa affermava essere stata emanata solo “per la durezza del cuore” degli uomini. Dovrebbe essere riservato ai comportamenti criminali più gravi. Altre forme di diritto (civile, amministrativo, ambientale) sono state elaborate da civiltà sempre più evolute, per il preciso scopo di regolamentare comportamenti sociali complessi, come appunto sono quelli collegati con la prevenzione dei rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori. Solo l’Italia, tra tutti i paesi del mondo, prevede di stimolare la prevenzione con la legge del taglione. I volenterosi Autori della Lettera, tutti appartenenti ai Servizi di Prevenzione, lamentano che “il numero di violazioni individuate a carico del MC [siano state] largamente inferiori a quelle di altri professionisti” e si ripropongono di accentuare il ricorso a “strumenti impositivi”. Forse ignorano che in Europa gli interventi degli organi di vigilanza sui luoghi di lavoro si concludono con una sanzione in meno del 5% dei casi, mentre in Italia ciò avviene in oltre il 95% dei casi. Oltre questo limite è matematicamente impossibile andare. Che la strada intrapresa sia sbagliata, dovrebbe essere evidente a tutti. Il modello europeo individua nel datore di lavoro, nei suoi consulenti tecnici (SPP) e medici (MC) e nei lavoratori gli attori della prevenzione e i responsabili della gestione del rischio. In Italia ci accingiamo a costruire Comitati per la Gestione del Rischio che si sovrappongano a queste figure, al fine di schermare i datori di lavoro dall’attacco di almeno dodici diversi Enti di vigilanza e di un diritto penale lento ma inesorabile nel distruggere le potenzialità industriali del paese, come dimostrano i casi della filiera dell’acciaio e molti altri esempi della cronaca. Il Re non è ammantato da uno splendido vestito, ma è desolatamente nudo. Se neppure quelli della SNOP se ne accorgono, abbiamo davvero di che preoccuparci.

Magnavita, N., Il vestito nuovo dell’imperatore. (The Emperor's new clothes), <<LA MEDICINA DEL LAVORO>>, 2014; 105 (Gennaio): 74-76 [http://hdl.handle.net/10807/56125]

Il vestito nuovo dell’imperatore. (The Emperor's new clothes)

Magnavita, Nicola
2014

Abstract

La persona che devo visitare è in ritardo, mi ha telefonato per dirmi che è bloccata nel traffico. È una giovane signora, che qualche mese fa ha avuto una diagnosi di carcinoma metastatizzato. Dopo la chirurgia, la chemioterapia, il trattamento radiante e quello ormonale tuttora in corso, scatta l’obbligo di legge di una nuova visita prima che possa essere esposta al rischio di “lavoro con terminale video”. Da vecchio medico del lavoro che ha visto tanti ammalarsi ancor giovani e morire di malattie professionali, continuo ad essere convinto che il videoterminale, se qualcuno non te lo tira in testa, non può farti un gran male. E so che i video moderni non sono quegli infernali strumenti a fosfori verdi davanti ai quali ho passato migliaia di ore nella gioventù, ma pervasivi dispositivi dai quali mia nipote, che non ha ancora tre anni, trae giochi, canzoni e fotografie. Un direttore incapace o colleghi invidiosi sono molto più nocivi di un videoterminale. Personalmente ho sempre cercato di trasformare la visita con esame ergo-oftalmologico “di legge” in un intervento di promozione della salute, dandole cadenza annuale. Ma mi sono spesso scontrato con Responsabili dei Servizi di Prevenzione tesi a convincere il datore di lavoro che, aumentando la frequenza delle visite, io stessi facendo qualcosa di diverso o magari di contrario alla legge. Quanto alle visite dopo malattia, già negli anni ’70 da medico di fabbrica avevo disposto che gli operai si presentassero a visita indipendentemente dalla convocazione ogni volta che avevano un problema di salute. C’era proprio bisogno di una sanzione penale per l’omissione di qualcosa che il medico del lavoro ha sempre fatto, quando ce ne è stato bisogno? Ma tant’è! Lungi da me l’idea di oppormi ad una legge dello Stato, anche se ritengo idiota costringere una donna che ha dovuto sopportare il trauma di una diagnosi impietosa quando si ha un figlio di cinque anni ed uno di pochi mesi ad impegnare una giornata della sua vita in ossequio alla burocrazia. Nell’attesa, sfoglio “La Medicina del Lavoro”. Ecco una Lettera interessante sul ruolo del medico competente [1]. Viene definito centrale. Vediamo un po’. Collaborazione alla valutazione dei rischi. “Di fatto nella grande maggioranza dei casi la valutazione dei rischi (VDR) viene ad essere svolta senza il contributo del MC”. Una bella centralità, non c’è che dire. Ma ecco: “a rafforzare la necessità della sua presenza, è l’obbligo di firma che il MC deve apporre in calce allo stesso, che ha un significato di condivisione dei rischi descritti e quindi di una precisa responsabilizzazione su quanto riportato…” Benissimo, ho capito. Il MC non conta nulla, ci pensa il “Servizio Prevenzione e Protezione (SPP) a rendere subalterno e marginale il suo ruolo”, ma il MC ha la piena responsabilità penale di quanto il SPP scrive ed il Datore di Lavoro sottoscrive. Nelle non poche occasioni in cui non condividevo l’identificazione dei rischi, le modalità di misurazione o i risultati del DVR, ho sempre messo per iscritto le mie indicazioni, che sono state peraltro quasi sempre disattese o ignorate. Mi sono quindi trovato innumerevoli volte nella condizione di non condividere un DVR che ho l’obbligo di sottoscrivere. Particolare non trascurabile, ho poi l’obbligo di redigere un Piano Sanitario: potrò farlo allora sulla base delle mie opinioni e degli elementi che ricavo dal sopralluogo, o devo piegarmi a quello che suggerisce l’RSPP? La Lettera non me lo chiarisce. Gli Autori questo stato di cose però lo conoscono bene, infatti dicono che quello del MC “è un obbligo generalmente poco valorizzato e poco rispettato, lasciando un vuoto che viene colmato da altri consulenti aziendali anche senza averne i presupposti di conoscenza”. Naturalmente ciò comporta “notevoli conseguenze sulla qualità della valutazione”. Gli Autori certo si saranno accorti che il DVR è il culmine di un processo che io chiamo “la svalutazione del rischio”: un ponderoso volume di problematica lettura, che esamina decine di potenziali agenti lesivi per concludere che nessun rischio professionale è rilevante. Il rumore industriale è virtualmente scomparso, se ricordate il convegno di Roma del 29 settembre 2011 (a 20 anni dal D.Lgs. 277/91) “Che fine ha fatto il rumore?”. Lo stress è obbligatoriamente valutato, in forza di una Circolare Ministeriale, con un metodo che non ha riscontri in letteratura e non è basato sull’evidenza. Gli altri rischi sono generalmente valutati con algoritmi dai risultati tranquillizzanti. Se fosse per i DVR che sottoscrivono, i MC non dovrebbero fare una sola visita. Dunque, nella pratica, “il ruolo del MC si sposta sul piano della sorveglianza sanitaria”, ma purtroppo non “da interlocutore principale per la gestione dei rischi per la salute”, forse piuttosto da corpo estraneo di un sistema che lo esclude da processi dei quali pure è responsabile. Chi sa se gli Autori si sono accorti del fatto che la Pubblica Amministrazione è obbligata per legge ad acquistare la sorveglianza sanitaria online con la Consip e che un unico fornitore si è aggiudicato l’80% del mercato nazionale. O che nel settore privato le Società di Servizi che dominano il mercato erogano visite mediche con giudizi di idoneità eseguite da specialisti di loro fiducia, togliendo quindi ai committenti ogni possibilità di relazionarsi al MC. Ma anche in quei casi fortunati e sempre meno frequenti nei quali il MC è scelto dal datore di lavoro, quali sono le informazioni sul rischio che egli riceve dal SPP, in aggiunta a quanto egli stesso ricava, per scienza e coscienza, dal sopralluogo o dall’anamnesi dei lavoratori? Con incrollabile fede, gli Autori ci ricordano che l’all. 3A, contiene “soprattutto la sezione complessa di anamnesi lavorativa con la dettagliata descrizione dei rischi professionali, dei tempi di esposizione e dei livelli di esposizione individuali, con l’art. 186 rischi fisici e 230 rischio chimico, peraltro sanzionati se mancanti”. Con sanzione (questo gli Autori non lo dicono chiaramente) a carico del MC che non ha registrato, non del SPP che non ha fornito, la “dettagliata descrizione” di cui sopra. Dal canto suo, il MC esegue “con una certa frequenza…accertamenti medici non giustificati dalla presenza di un rischio professionale” e istituisce cartelle sanitarie e di rischio “dalla compilazione incompleta o inadeguata, fino a volte alla completa illeggibilità grafica”. La “scarsa attenzione sull’anamnesi lavorativa, che in genere investe tutto il sistema sanitario” porta alla sottonotifica degli infortuni e delle malattie professionali, spesso per “la paura di ritorsioni da parte del DdL”. In questo quadro, non capisco come sia possibile affermare che “La raccolta e la trasmissione dei dati aggregati sanitari e di rischio…consente al MC…di valorizzare il suo ruolo all’interno del processo aziendale di gestione della salute fisica e psico-sociale dei lavoratori”. Non è possibile confondere i dati aggregati, da trasmettere con l’Allegato 3b al SSN, con i dati anonimi collettivi, da presentare al DdL, al SPP e ai RLS. Certamente questi ultimi, se raccolti con metodi epidemiologici corretti e analizzati statisticamente, rappresentano un contributo di capitale importanza nel miglioramento della qualità della vita lavorativa. Ma ho forti dubbi che i primi, cioè i dati aggregati previsti dall’allegato 3b, possano fornire “importanti informazioni epidemiologiche sui rischi e sui danni per la salute dei lavoratori, permettendo una reale mappatura dei rischi presenti nel territorio locale e nazionale”, “monitorare il livello quantitativo dell’attività di sorveglianza sanitaria” e addirittura produrre “un risultato di estrema rilevanza sanitaria e sociale”, perché lo strumento proposto, nonostante il “sofferto iter normativo durato due anni”, presenta ancora i clamorosi difetti strutturali che avevo segnalato quattro anni fa [2, 3]: ad esempio, una voce dedicata agli infrasuoni, ma nessuna alle radiazioni ionizzanti. Da una epidemiologia d’accatto, è lecito attendersi solo risultati d’accatto. Come siamo arrivati a questo poco encomiabile risultato, a vent’anni dal recepimento delle Direttive europee con le quali avremmo dovuto estendere all’Italia la metodologia scandinava di gestione del rischio da lavoro? Il grande fraintendimento è stato ignorare che il sistema di prevenzione Nord-europeo si basa, sin dalla sua nascita negli anni ’40, sulla pari dignità di lavoratori e datori di lavoro: è un sistema orizzontale, democratico, partecipativo, nel quale il rappresentante dei lavoratori (RLS) e quello del datore di lavoro (RSPP) sono due tecnici che hanno spesso frequentato la stessa scuola, parlano lo stesso linguaggio e condividono l’esigenza di ottenere il miglior livello di prevenzione con il minore costo. Lo Stato, la magistratura e i carabinieri a cavallo non hanno alcun ruolo in un processo sociale regolamentato da pochissime leggi di carattere generale. La nostra mentalità e la struttura sociale piramidale, gerarchizzata e immobile ci hanno indotto a credere che sarebbe stato facile imporre la prevenzione mediante il diritto penale. In realtà, tutto quello che possiamo imporre per legge è l’adesione formale ad alcune ritualità, ma non il cambiamento di mentalità. Il diritto penale è, fra tutte le forma di diritto, quella più primitiva e barbarica, la mosaica “legge del taglione” che Gesù Cristo duemila anni fa affermava essere stata emanata solo “per la durezza del cuore” degli uomini. Dovrebbe essere riservato ai comportamenti criminali più gravi. Altre forme di diritto (civile, amministrativo, ambientale) sono state elaborate da civiltà sempre più evolute, per il preciso scopo di regolamentare comportamenti sociali complessi, come appunto sono quelli collegati con la prevenzione dei rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori. Solo l’Italia, tra tutti i paesi del mondo, prevede di stimolare la prevenzione con la legge del taglione. I volenterosi Autori della Lettera, tutti appartenenti ai Servizi di Prevenzione, lamentano che “il numero di violazioni individuate a carico del MC [siano state] largamente inferiori a quelle di altri professionisti” e si ripropongono di accentuare il ricorso a “strumenti impositivi”. Forse ignorano che in Europa gli interventi degli organi di vigilanza sui luoghi di lavoro si concludono con una sanzione in meno del 5% dei casi, mentre in Italia ciò avviene in oltre il 95% dei casi. Oltre questo limite è matematicamente impossibile andare. Che la strada intrapresa sia sbagliata, dovrebbe essere evidente a tutti. Il modello europeo individua nel datore di lavoro, nei suoi consulenti tecnici (SPP) e medici (MC) e nei lavoratori gli attori della prevenzione e i responsabili della gestione del rischio. In Italia ci accingiamo a costruire Comitati per la Gestione del Rischio che si sovrappongano a queste figure, al fine di schermare i datori di lavoro dall’attacco di almeno dodici diversi Enti di vigilanza e di un diritto penale lento ma inesorabile nel distruggere le potenzialità industriali del paese, come dimostrano i casi della filiera dell’acciaio e molti altri esempi della cronaca. Il Re non è ammantato da uno splendido vestito, ma è desolatamente nudo. Se neppure quelli della SNOP se ne accorgono, abbiamo davvero di che preoccuparci.
2014
Italiano
Magnavita, N., Il vestito nuovo dell’imperatore. (The Emperor's new clothes), <<LA MEDICINA DEL LAVORO>>, 2014; 105 (Gennaio): 74-76 [http://hdl.handle.net/10807/56125]
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