Il saggio cerca di cogliere aspetti non scontati delle varie sperimentazioni condotte da John Cage attorno alla nozione di silenzio. Famosissimo è il caso del sempre citato "4’33’’": un brano del 1952, pensato per un qualsiasi organico ad libitum, in cui si richiede agli esecutori di preparare tutto l'occorrente per far musica, ma poi di tacere esattamente per la durata indicata nel titolo. All'inizio di un'esecuzione di "4’33’’", lo spettatore-tipo rimane colpito e sorpreso dalla mancanza dell'elemento musicale e, prima che la sua percezione sia attratta dalla ricchezza acustica che comunque connoterà l'ambiente (fruscii, scricchiolii, colpi di tosse etc.), la sua ricettività si aprirà a una duplice serie di sensazioni: avvertendosi frustrata la modalità sonoro-musicale, l'attenzione si concentrerà sulla componente visiva, come se si attivasse un meccanismo di compensazione dell'aspettazione. E il decorso temporale, non essendo strutturato e "ordinato" dalla ritmicità del suono organizzato, rivelerà appieno tutta la sua relatività, ossia verrà a generarsi un nuovo sistema di riferimento, con coordinate proprie, diverse da quelle abituali nel contesto di fruizione di una sala da concerto. Ecco perché si può dire che con "4’33’’" il silenzio diventa tempo, oltre che determinare una percezione dello spazio differente rispetto alla norma, per via dello scarto fra attesa e compimento.
Bolpagni, P., Il silenzio diventa tempo - appunti sulla poetica di John Cage, <<TITOLO>>, 2013; (6 (nuova serie)): 9-11 [http://hdl.handle.net/10807/48153]
Il silenzio diventa tempo - appunti sulla poetica di John Cage
Bolpagni, Paolo
2013
Abstract
Il saggio cerca di cogliere aspetti non scontati delle varie sperimentazioni condotte da John Cage attorno alla nozione di silenzio. Famosissimo è il caso del sempre citato "4’33’’": un brano del 1952, pensato per un qualsiasi organico ad libitum, in cui si richiede agli esecutori di preparare tutto l'occorrente per far musica, ma poi di tacere esattamente per la durata indicata nel titolo. All'inizio di un'esecuzione di "4’33’’", lo spettatore-tipo rimane colpito e sorpreso dalla mancanza dell'elemento musicale e, prima che la sua percezione sia attratta dalla ricchezza acustica che comunque connoterà l'ambiente (fruscii, scricchiolii, colpi di tosse etc.), la sua ricettività si aprirà a una duplice serie di sensazioni: avvertendosi frustrata la modalità sonoro-musicale, l'attenzione si concentrerà sulla componente visiva, come se si attivasse un meccanismo di compensazione dell'aspettazione. E il decorso temporale, non essendo strutturato e "ordinato" dalla ritmicità del suono organizzato, rivelerà appieno tutta la sua relatività, ossia verrà a generarsi un nuovo sistema di riferimento, con coordinate proprie, diverse da quelle abituali nel contesto di fruizione di una sala da concerto. Ecco perché si può dire che con "4’33’’" il silenzio diventa tempo, oltre che determinare una percezione dello spazio differente rispetto alla norma, per via dello scarto fra attesa e compimento.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.