Il lavoro affronta la delicata problematica del rilievo giuridico, e segnatamente penalistico, dell’attività medica posta in essere senza adeguata copertura del consenso da parte del paziente, nei casi in cui il consenso stesso risulti necessario: problematica la quale ha dato luogo, come è noto, a complesse vicende giurisprudenziali e a un notevole dibattito in dottrina. L’analisi è svolta ponendo immediatamente in evidenza il nesso tra la questione teorica in oggetto e il pericoloso diffondersi delle condotte di c.d. medicina "difensiva", orientate all’assunzione di atteggiamenti, soprattutto omissivi, non più orientati alla migliore informazione e alla migliore salvaguardia del malato, bensì a minimizzare il rischio, per il medico, di contenzioso giudiziario conseguente all’assunzione di un’iniziativa clinica o chirurgica. Ciò, soprattutto, in rapporto all’estrema difficoltà, per il personale sanitario, di governare a priori il pericolo di contestazioni ex post circa la puntuale ed esplicita copertura da parte del consenso di ogni possibile esito ricollegabile all’attività terapeutica, specie con riguardo alla verificazione di eventi avversi. In questo contesto, il contributo aderisce all’assunto di cui alla sentenza della Cassazione penale a sezioni unite del 21 gennaio 2009, n. 2437, secondo cui l’attività medica ealizzata in conformità all’indicazione terapeutica ("lege artis") che produca un miglioramento nella funzionalità dell’organismo non può dar luogo, pur in mancanza di un adeguato consenso, al delitto di lesioni e neppure, sebbene rappresenti una lesione della libertà morale, al delitto di violenza privata: assumendo rilievo, pertanto, come illecito esclusivamente civile e disciplinare. In particolare, vengono approfondite le ragioni per le quali non appare ragionevole addivenire a una nozione totalmente soggettivizzata del concetto di malattia e per le quali, parallelamente, quel concetto deve rimanere inteso nel senso di un’alterazione funzionale dell’organismo, e non meramente anatomica dei tessuti. Sotto questo profilo, si evidenzia come la problematica del rispetto dovuto ordinariamente al consenso circa l’attivazione di un’iniziativa terapeutica resti disgiunta dalla problematica concernente la valutazione del carattere terapeutico di una condotta sanitaria: il che, peraltro, solleva la problematica relativa all’esigenza di un’individuazione sufficientemente determinata e condivisa dei criteri di conformità dell’attività medica alla "lex artis". Se ne deriva, altresì, che la stessa tenuta di un atto terapeutico non adeguatamente coperto dal consenso ma conforme alla "lex artis" resta insuscettibile di produrre responsabilità penale anche nel caso di un eventuale esito infausto: posto che la violazione di norme giuridiche insita in quell’atto non si configura come violazione di norme finalizzate a evitare un danno per l’incolumità personale (trattandosi di un atto accreditato come idoneo, piuttosto, alla tutela della salute). Ciò considerato, si prende posizione circa l’inopportunità di iniziative, stanti i rischi connessi alla medicina difensiva, intese all’introduzione del reato di c.d. atto medico arbitrario. Si ritiene, piuttosto, che il rispetto delle norme in tema di consenso nell’attività sanitaria possa essere più efficacemente perseguito attraverso modalità extrapenali, tra le quali assumono oggi notevole rilievo proposte volte a istituire procedure di mediazione, con esito riparativo, riguardanti l’intero ambito della responsabilità medica.

Eusebi, L., Verso una recuperata determinatezza della responsabilità medica in ambito penale? Il ruolo del consenso alla luce di Cass. s.u. 21-1-2009, n. 2437, <<CRIMINALIA>>, 2009; 2009 (annuario): 423-431 [http://hdl.handle.net/10807/28315]

Verso una recuperata determinatezza della responsabilità medica in ambito penale? Il ruolo del consenso alla luce di Cass. s.u. 21-1-2009, n. 2437

Eusebi, Luciano
2009

Abstract

Il lavoro affronta la delicata problematica del rilievo giuridico, e segnatamente penalistico, dell’attività medica posta in essere senza adeguata copertura del consenso da parte del paziente, nei casi in cui il consenso stesso risulti necessario: problematica la quale ha dato luogo, come è noto, a complesse vicende giurisprudenziali e a un notevole dibattito in dottrina. L’analisi è svolta ponendo immediatamente in evidenza il nesso tra la questione teorica in oggetto e il pericoloso diffondersi delle condotte di c.d. medicina "difensiva", orientate all’assunzione di atteggiamenti, soprattutto omissivi, non più orientati alla migliore informazione e alla migliore salvaguardia del malato, bensì a minimizzare il rischio, per il medico, di contenzioso giudiziario conseguente all’assunzione di un’iniziativa clinica o chirurgica. Ciò, soprattutto, in rapporto all’estrema difficoltà, per il personale sanitario, di governare a priori il pericolo di contestazioni ex post circa la puntuale ed esplicita copertura da parte del consenso di ogni possibile esito ricollegabile all’attività terapeutica, specie con riguardo alla verificazione di eventi avversi. In questo contesto, il contributo aderisce all’assunto di cui alla sentenza della Cassazione penale a sezioni unite del 21 gennaio 2009, n. 2437, secondo cui l’attività medica ealizzata in conformità all’indicazione terapeutica ("lege artis") che produca un miglioramento nella funzionalità dell’organismo non può dar luogo, pur in mancanza di un adeguato consenso, al delitto di lesioni e neppure, sebbene rappresenti una lesione della libertà morale, al delitto di violenza privata: assumendo rilievo, pertanto, come illecito esclusivamente civile e disciplinare. In particolare, vengono approfondite le ragioni per le quali non appare ragionevole addivenire a una nozione totalmente soggettivizzata del concetto di malattia e per le quali, parallelamente, quel concetto deve rimanere inteso nel senso di un’alterazione funzionale dell’organismo, e non meramente anatomica dei tessuti. Sotto questo profilo, si evidenzia come la problematica del rispetto dovuto ordinariamente al consenso circa l’attivazione di un’iniziativa terapeutica resti disgiunta dalla problematica concernente la valutazione del carattere terapeutico di una condotta sanitaria: il che, peraltro, solleva la problematica relativa all’esigenza di un’individuazione sufficientemente determinata e condivisa dei criteri di conformità dell’attività medica alla "lex artis". Se ne deriva, altresì, che la stessa tenuta di un atto terapeutico non adeguatamente coperto dal consenso ma conforme alla "lex artis" resta insuscettibile di produrre responsabilità penale anche nel caso di un eventuale esito infausto: posto che la violazione di norme giuridiche insita in quell’atto non si configura come violazione di norme finalizzate a evitare un danno per l’incolumità personale (trattandosi di un atto accreditato come idoneo, piuttosto, alla tutela della salute). Ciò considerato, si prende posizione circa l’inopportunità di iniziative, stanti i rischi connessi alla medicina difensiva, intese all’introduzione del reato di c.d. atto medico arbitrario. Si ritiene, piuttosto, che il rispetto delle norme in tema di consenso nell’attività sanitaria possa essere più efficacemente perseguito attraverso modalità extrapenali, tra le quali assumono oggi notevole rilievo proposte volte a istituire procedure di mediazione, con esito riparativo, riguardanti l’intero ambito della responsabilità medica.
2009
Italiano
Eusebi, L., Verso una recuperata determinatezza della responsabilità medica in ambito penale? Il ruolo del consenso alla luce di Cass. s.u. 21-1-2009, n. 2437, <<CRIMINALIA>>, 2009; 2009 (annuario): 423-431 [http://hdl.handle.net/10807/28315]
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