Uno dei piú celebri episodi upanisadici che hanno per protagonista il famoso maestro Yājñavalkya lo vede trionfare in una disputa teologica su numerosi avversari, l’ultimo dei quali, Vidagdha Śākalya, subisce un atroce destino per aver avuto l’ardire di sfidarlo oltre il lecito: l’interrogativo finale che gli propone Yājñavalkya si rivela per lui un vero rompicapo, di nome e di fatto: incapace di rispondere, tasya hā mūrdhā vipapāta, ovvero, secondo una delle traduzioni piú correnti, “la sua testa andò in frantumi”. Si tratta dell’unico caso in cui un testo ci presenta l’attuazione effettiva dell’enigmatica minaccia di esplosione della testa che costituisce un topos del brahmodya, ovvero la ‘disputa sul brahman’, nelle sue varie forme. Già molti studiosi si sono cimentati a delucidare, da un lato, il reale significato dell’espressione formulare che coinvolge la rad. vi-pat — se da intendersi in una valenza variamente metaforica (‘perder la testa’ nel senso di andare in confusione, oppure ‘perdere la faccia’) ovvero letterale; d’altro lato, l’origine dell’espressione stessa, che taluno colloca, come già detto, nell’ambito teologico del brahmodya, ma talatro ritiene duplice, affiancando all’ambito teologico un ambito giuridico, le due radici originariamente distinte essendo poi confluite in un tronco unico; o ancora, le circostanze e i contesti nei quali la minaccia trova applicazione, attraverso l’analisi di una varietà di narrazioni desunte dai Brāhmaṇa, dalle Upaniṣad, dal canone pāli del Buddhismo, fino a storie piú recenti del Rāmāyaṇa e del Mahābhārata. Sulla base di questi antecedenti, il presente contributo intende mostrare come le diverse modalità con cui ricorre il topos dello ‘scoppio della testa’ si possano in realtà ricondurre sotto la rubrica comune di una divaricazione tra parola e verità: lo scoppio della testa minaccia chi dice e non sa, oppure chi, in un modo o nell’altro, sa e non dice. Questo secondo aspetto, già presente in alcuni testi collaterali già noti ma relativamente meno studiati afferenti all’argomento, risulta chiaramente dall’esame di un nuovo testo che ora per la prima volta (a mia conoscenza) viene introdotto nella discussione: nella raccolta di novelle della Vetālapañcaviṁśati, la “Venticinquina del demone”, un re vincolato all’ingrato compito di portare a spalla un cadavere fino al luogo in cui deve esser utilizzato per un rituale di magia nera si sente apostrofare dalla salma, posseduta da un vetāla, che gli racconta una storia conclusa da un indovinello e gli ingiunge di dichiararne la soluzione, qualora ne sia a conoscenza, sotto pena di scoppio della testa; rispondendo, il re scampa alla minaccia, ma infrange un tabú della favella, ciò che lo costringe a riprendere da capo l’ordalia, in una fatica di Sisifo da cui l’unica via d’uscita è che il re, non sapendo, non dica.

Magnone, P., Enigmi e rompicapi (di nome e di fatto). Persistenza di un topos letterario indiano, <<ALESSANDRIA>>, 2019; 13 (N/A): 209-224 [http://hdl.handle.net/10807/203495]

Enigmi e rompicapi (di nome e di fatto). Persistenza di un topos letterario indiano

Magnone, Paolo
2019

Abstract

Uno dei piú celebri episodi upanisadici che hanno per protagonista il famoso maestro Yājñavalkya lo vede trionfare in una disputa teologica su numerosi avversari, l’ultimo dei quali, Vidagdha Śākalya, subisce un atroce destino per aver avuto l’ardire di sfidarlo oltre il lecito: l’interrogativo finale che gli propone Yājñavalkya si rivela per lui un vero rompicapo, di nome e di fatto: incapace di rispondere, tasya hā mūrdhā vipapāta, ovvero, secondo una delle traduzioni piú correnti, “la sua testa andò in frantumi”. Si tratta dell’unico caso in cui un testo ci presenta l’attuazione effettiva dell’enigmatica minaccia di esplosione della testa che costituisce un topos del brahmodya, ovvero la ‘disputa sul brahman’, nelle sue varie forme. Già molti studiosi si sono cimentati a delucidare, da un lato, il reale significato dell’espressione formulare che coinvolge la rad. vi-pat — se da intendersi in una valenza variamente metaforica (‘perder la testa’ nel senso di andare in confusione, oppure ‘perdere la faccia’) ovvero letterale; d’altro lato, l’origine dell’espressione stessa, che taluno colloca, come già detto, nell’ambito teologico del brahmodya, ma talatro ritiene duplice, affiancando all’ambito teologico un ambito giuridico, le due radici originariamente distinte essendo poi confluite in un tronco unico; o ancora, le circostanze e i contesti nei quali la minaccia trova applicazione, attraverso l’analisi di una varietà di narrazioni desunte dai Brāhmaṇa, dalle Upaniṣad, dal canone pāli del Buddhismo, fino a storie piú recenti del Rāmāyaṇa e del Mahābhārata. Sulla base di questi antecedenti, il presente contributo intende mostrare come le diverse modalità con cui ricorre il topos dello ‘scoppio della testa’ si possano in realtà ricondurre sotto la rubrica comune di una divaricazione tra parola e verità: lo scoppio della testa minaccia chi dice e non sa, oppure chi, in un modo o nell’altro, sa e non dice. Questo secondo aspetto, già presente in alcuni testi collaterali già noti ma relativamente meno studiati afferenti all’argomento, risulta chiaramente dall’esame di un nuovo testo che ora per la prima volta (a mia conoscenza) viene introdotto nella discussione: nella raccolta di novelle della Vetālapañcaviṁśati, la “Venticinquina del demone”, un re vincolato all’ingrato compito di portare a spalla un cadavere fino al luogo in cui deve esser utilizzato per un rituale di magia nera si sente apostrofare dalla salma, posseduta da un vetāla, che gli racconta una storia conclusa da un indovinello e gli ingiunge di dichiararne la soluzione, qualora ne sia a conoscenza, sotto pena di scoppio della testa; rispondendo, il re scampa alla minaccia, ma infrange un tabú della favella, ciò che lo costringe a riprendere da capo l’ordalia, in una fatica di Sisifo da cui l’unica via d’uscita è che il re, non sapendo, non dica.
2019
Italiano
Magnone, P., Enigmi e rompicapi (di nome e di fatto). Persistenza di un topos letterario indiano, <<ALESSANDRIA>>, 2019; 13 (N/A): 209-224 [http://hdl.handle.net/10807/203495]
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