Il diritto alla salute dei detenuti ai tempi del COVID-19: strumenti di tutela e possibili profili di violazione dell’art. 3 CEDU

The spreading of the coronavirus pandemic through prisons has pointed out the fragility of our penitentiary system and has offered a chance to think over the effectiveness of instruments of protection for the right to health in prison. Indeed, many have reported a real risk of violation of art. 3 ECHR – which establishes the absolute prohibition of torture, punishment or inhuman or degrading treatment – and prevention strategies to combat the virus in prison have been promoted. In particular, several European and international Institutions have suggested the strengthening of alternative measures to detention, which is a proof of the prominent role of health and, in turn, of the rehabilitative purpose of the punishment. As proven by many measures adopted to stop contacts with the external world in order to avoid possible contamination and, lastly, by the decrees law n. 28/2020 and n. 29/2020, the Surveillance Magistracy seems to be much more aware of such needs than the Government, because it has proceeded to the liberation of more than eight thousand prisoners as a preventive measure, given the incompatibility between health conditions and detention regime and the real risk of covid-19 infection. In the heated debate about whether it would be better to shut down or to open detention facilities in the current health emergency situation, the answer can be found within the fundamental values of our Constitution and of the European Convention of Human Rights, according to which it is necessary to ensure effective protection even in prison and to guarantee a sense of humanity to the punishment. This is possible only by abandoning the automatisms linked to the violation, in a judgement of compatibility between health conditions and public safety necessity, and by evaluating the situation in light of the actual circumstances and of every prisoner’s re-education path.

Il propagarsi della pandemia da coronavirus negli istituti penitenziari ha evidenziato le fragilità del nostro sistema penitenziario e offerto l’occasione per riflettere sull’efficacia degli strumenti posti a tutela del diritto alla salute in carcere. Da più parti si è infatti segnalato un concreto rischio di violazioni dell’art. 3 CEDU – che pone il divieto assoluto di tortura, pene o trattamenti inumani o degradanti – e sono state avanzate strategie di prevenzione e contrasto del virus in carcere. In particolare, diverse Istituzioni europee e internazionali hanno suggerito il potenziamento delle misure alternative alla detenzione, a dimostrazione del ruolo preminente da attribuire alla salute e, così, alla funzione rieducativa della pena. Di tali esigenze, molto più del Governo – come dimostrato dai vari provvedimenti finalizzati a bloccare i contatti con il mondo esterno per evitare possibili contaminazioni e, da ultimo, dai decreti legge n. 28/2020 e n. 29/2020 –, sembra esserne consapevole la Magistratura di Sorveglianza, che – con le accese polemiche e critiche che ne sono scaturite –, in un’ottica preventiva, ha proceduto alla scarcerazione di oltre ottomila detenuti, poiché in condizioni di salute incompatibili con il regime detentivo e a concreto rischio di contagio da covid-19. Nell’acceso dibattito caratterizzato dall’alternativa tra chiusura o apertura del carcere quale migliore strategia di gestione dell’attuale emergenza sanitaria una risposta può ricavarsi dai valori fondamentali della nostra Costituzione e della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo i quali è necessario garantire alla salute una tutela effettiva anche in carcere e alla pena il suo senso di umanità. Ciò è possibile solo abbandonando, nel giudizio di compatibilità tra condizioni di salute ed esigenze di sicurezza pubblica, automatismi legati al titolo di reato ed effettuando valutazioni alla luce delle circostanze concrete e del percorso rieducativo di ogni detenuto.