"Ed in Arcadia ero" raccoglie l’opera poetica, esigua ma assai significativa (e in gran parte inedita), di Sergio Ferrero (1926-2008), uno dei narratori più originali ed appartati nel secondo Novecento. Discepolo, a vent’anni, di Umberto Saba, con cui intrattenne un importante carteggio, Sergio Ferrero, dopo i fragili versi della giovinezza, si rivolse alla poesia a fine anni settanta, forse anche per scalfire il lungo silenzio fra la pubblicazione del suo romanzo più noto, Il giuoco sul ponte (Mondadori 1971) e il ritorno alla narrativa con A moscacieca (Longanesi 1985). Con un dettato di trasparenza sabiana, ma screziato di montalismi, Ferrero scrive d’amicizia e di fugaci amori, di minuscoli giardini rigogliosi di gelsomino e caprifoglio, di cani e di cicale, del torpore meridiano, di Basho, Prospero, Kaspar Hauser; d’un’estate che passa, dello sgomento dell’inverno. La «parola che ti salva» resta, ostinatamente, non detta, il «responso» è sempre «indecifrato». Ma l’incubo metafisico è rotto da piccole, sorprendenti gioie: «Che me ne faccio dell’erba voglio? / Ho tutto quello che si può sognare: / persino un gatto che sa di trifoglio». Al sole nero della malinconia si alternano gli squarci azzurrissimi del cielo dell’Argolide, dove, proprio ai confini dell’Arcadia, Ferrero ha scritto molte di queste poesie.
Rognoni, F., (a cura di), Edizione critica di testi / di scavo di "Ed in Arcadia ero. Poesie e viaggi in Grecia" / Sedizioni, Mergozzo-Viddalba 2015: 146 [http://hdl.handle.net/10807/73573]
Ed in Arcadia ero. Poesie e viaggi in Grecia
Rognoni, FrancescoPrimo
2015
Abstract
"Ed in Arcadia ero" raccoglie l’opera poetica, esigua ma assai significativa (e in gran parte inedita), di Sergio Ferrero (1926-2008), uno dei narratori più originali ed appartati nel secondo Novecento. Discepolo, a vent’anni, di Umberto Saba, con cui intrattenne un importante carteggio, Sergio Ferrero, dopo i fragili versi della giovinezza, si rivolse alla poesia a fine anni settanta, forse anche per scalfire il lungo silenzio fra la pubblicazione del suo romanzo più noto, Il giuoco sul ponte (Mondadori 1971) e il ritorno alla narrativa con A moscacieca (Longanesi 1985). Con un dettato di trasparenza sabiana, ma screziato di montalismi, Ferrero scrive d’amicizia e di fugaci amori, di minuscoli giardini rigogliosi di gelsomino e caprifoglio, di cani e di cicale, del torpore meridiano, di Basho, Prospero, Kaspar Hauser; d’un’estate che passa, dello sgomento dell’inverno. La «parola che ti salva» resta, ostinatamente, non detta, il «responso» è sempre «indecifrato». Ma l’incubo metafisico è rotto da piccole, sorprendenti gioie: «Che me ne faccio dell’erba voglio? / Ho tutto quello che si può sognare: / persino un gatto che sa di trifoglio». Al sole nero della malinconia si alternano gli squarci azzurrissimi del cielo dell’Argolide, dove, proprio ai confini dell’Arcadia, Ferrero ha scritto molte di queste poesie.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.