La biometria sembra essere la risposta adeguata all’esigenza di identificazione all’interno di una società globale dal momento che consente il riconoscimento sulla base del possesso non più di un qualcosa di “dato” o “comunicato” da un’autorità garante, ma su “ciò che si è”, sul proprio corpo. Tale soluzione, pur rifacendosi in apparenza ai “sistemi biometrici” premoderni rappresenta, a ben guardare, una rivoluzione epocale: il cambiamento apportato dalle nuove tecnologie (tra cui quelle nel campo della genetica) nell’ambito biometrico è costituito, dal fatto che tali procedimenti più sofisticati comportano un’applicazione automatica ed estensiva, la possibilità di una modifica del corpo, una capacità tecnica di ingerenza nei confronti della persona, la possibilità di rilevare dati che variamente incrociati possono dar luogo a fenomeni di “profilatura” (un «profilo» dei nostri gusti, delle nostre abitudini, della nostra affidabilità che si attiva immediatamente assieme al dato biometrico e, a nostra insaputa, ci scheda e classifica irrimediabilmente) o che vanno al di là della mera esigenza d’identificazione. I casi più eclatanti sono quelli del metodo del riconoscimento della retina, che può segnalare la presenza di ipertensione o diabete, o dell’analisi dell’iride, che può evidenziare l’uso di alcool o di sostanze stupefacenti. Queste informazioni così delicate sono assunte indipendentemente dalla volontà del soggetto e accrescono i rischi della “profilatura”, perché potrebbero essere utilizzate, a sua insaputa, ad esempio nella selezione per un posto di lavoro, nella concessione di un mutuo o nel calcolo del premio di una polizza assicurativa. Inoltre, la creazione di banche dati informatizzate apre una serie di questioni derivanti non solo dalla natura e dal numero d’informazioni che possono essere raccolte ma anche dai diversi usi che se ne possono fare (il problema non è costituito dall’assunzione del singolo dato che si esaurisce all’interno di uno specifico evento ma la sua conservazione tendenzialmente senza limiti di tempo all’interno di un sistema informatico). Già dalla fine degli anni sessanta la nascente industria informatica aveva automatizzato le tecniche di rilevazione di alcuni dati biometrici (tra cui quello delle impronte digitali e della struttura dell’iride). Esse erano costruite, come lo sono ancora oggi, a partire da un lettore (scanner) che riproduce su un supporto elettronico i dati biometrici della persona (forma dell’iride, impronte digitali, geometria del volto …) e un software che li converte in forma digitale attraverso un algoritmo e, poiché gli algoritmi usati sono diversi, ogni sistema biometrico crea diversi modelli (template) della stessa caratteristica fisica e, a seconda del tipo di identificazione scelta, si registrano diversi parametri di affidabilità in riferimento all’esito. Ma, se allora, tali tecnologie erano molto costose e poco affidabili, oggi, la situazione è mutata radicalmente fino a far intravedere la possibilità di scenari che sono ancora difficili da prevedere sia dal punto di vista etico-antropologico che giuridico dal momento che esse, come «dispositivi di impossessamento», operano a diversi livelli. Il primo, il più evidente, è dovuto alla dispersione delle molteplici tracce che lasciamo e che, una volta manipolate e rielaborate, ci sono sottratte e costituiscono un’immagine fittizia di noi stessi che si sovrappone a quella reale, classificando, emarginando e, talvolta, condannando. Un secondo livello di analisi dei possibili effetti della biometria sembra incidere ancora più radicalmente sugli spazi di libertà nel caso della prossima sostituzione di ogni dato anagrafico (carta d’identità) con il dato biometrico da cui potrebbe derivare una nuova forma di dovere sociale, quello di mantenere intatti i propri dati biometrici venendo, così, meno uno degli elementi fondamentali dell’identità personale: il diritto di costruire la propria immagine. La complessa questione sottostante a tali livelli di analisi deriva da un corpo che, sempre più virtuale e schedato in banche dati, rischia di essere ridotto – spogliato di ogni “connotato egoico” (intenzionale) – a mero oggetto di natura sottoposto all’analisi sperimentale, un mero accumulo di dati: una fonte diretta di informazioni delle quali la persona non dispone se non in maniera ridotta. Infatti, le “tracce e i dati” misurati dai sistemi biometrici possono essere sottratte al suo titolare con i relativi pericoli d’errore che potrebbero condurre a falsificazioni d’identità o a sdoppiamenti di personalità, con un grave danno alla dignità della persona nell’esercizio delle sue facoltà e interessi giuridici, fino a giungere al c.d. furto della personalità, attraverso l’acquisizione fraudolenta dei dati. Come ha messo in luce il CNB risultano a questo punto evidenti «le profonde influenze psicosociali che comunque la biometria avrà nel prossimo futuro, compresa la possibile sensazione di incertezza rispetto all’immagine di sé e alla propria capacità di venire riconosciuti dai sistemi biometrici». La tecnica si mostra sempre più in grado di penetrare i corpi ma sono corpi che, paradossalmente, pur investendoci con la loro presenza massiccia, si destrutturano, divengono oggetti privi di personalità, in un’opacità che non rivela la persona, ma la vela o, addirittura, la smarrisce: sono i corpi scrutati dai sistemi biometrici che non guardano negli occhi ma si limitano a guardare gli occhi, non contemplano un viso ma lo “svisano” spogliandolo di se stesso ed applicando ad esso la maschera vuota dell’anonimato. Ma, se esiste un diritto alla visibilità, una sorta di habeas corpus che garantisce il proprio esserci in prima persona, esiste anche un diritto all’invisibilità – alla privacy – che assicura la possibilità di dileguarsi quando l’essere visti diventa arbitraria esposizione. L’esigenza di regolare il conflitto di interessi in questione, alla tutela della vita privata di ognuno (privacy) ed alla sicurezza di tutti, scorre proprio sul filo di un evidente paradosso: che le tecniche mediante le quali, in ossequio alle pressanti ragioni di sicurezza, è ormai possibile ed ordinaria l’intromissione nella vita privata di ciascuno non si risolvano invece in strumenti di insicurezza derivata. Il Gruppo per la tutela della persone con riguardo al trattamento dei dati personali, nel documento adottato nell’agosto del 2003, ha sottolineato la necessità che, a fronte del rapido sviluppo delle tecnologie biometriche ed all’estensione della loro applicazione, sia posta nel dovuto riguardo la questione della tutela dei dati. Come si vede, non vi è livello della riflessione scientifica che non si interroghi sull’opportunità che il diritto alla riservatezza sia sacrificato, e se sì in che misura, alle istanze di sicurezza cui il decisore pubblico intenda rispondere. E questo anche perché, da ogni parte, se ne rileva la potenziale deriva dis-umanizzante, perché tendente a ridurre la persona a misure biometriche ed il corpo a somma di dati ed informazioni liberamente attingibili. Il tema è denso di criticità e questioni di difficile chiusura, se si pensa al sacrificio cui le tecniche biometriche sottopongono il diritto a non conoscere od a rifiutare oltre che il più immediato diritto alla tutela della sfera privata. Il rischio da più parti avvertito riguarda la possibilità che lo strumento tecnologico si polarizzi sempre più sul corpo umano, sino a smarrire il valore autentico e, per certi versi, inesprimibile di ciascuno, nell’alveo del patrimonio genetico, rilevabile e misurabile.
Cristofari, F., Gli algoritmi dell'identità: il corpo umano, in Amato Salvatore, C. F. R. S., Biometria. I codici a barre del corpo, Giappichelli Editore, Torino 2013: 1-161 [http://hdl.handle.net/10807/55899]
Gli algoritmi dell'identità: il corpo umano
Cristofari, Fabiana
2013
Abstract
La biometria sembra essere la risposta adeguata all’esigenza di identificazione all’interno di una società globale dal momento che consente il riconoscimento sulla base del possesso non più di un qualcosa di “dato” o “comunicato” da un’autorità garante, ma su “ciò che si è”, sul proprio corpo. Tale soluzione, pur rifacendosi in apparenza ai “sistemi biometrici” premoderni rappresenta, a ben guardare, una rivoluzione epocale: il cambiamento apportato dalle nuove tecnologie (tra cui quelle nel campo della genetica) nell’ambito biometrico è costituito, dal fatto che tali procedimenti più sofisticati comportano un’applicazione automatica ed estensiva, la possibilità di una modifica del corpo, una capacità tecnica di ingerenza nei confronti della persona, la possibilità di rilevare dati che variamente incrociati possono dar luogo a fenomeni di “profilatura” (un «profilo» dei nostri gusti, delle nostre abitudini, della nostra affidabilità che si attiva immediatamente assieme al dato biometrico e, a nostra insaputa, ci scheda e classifica irrimediabilmente) o che vanno al di là della mera esigenza d’identificazione. I casi più eclatanti sono quelli del metodo del riconoscimento della retina, che può segnalare la presenza di ipertensione o diabete, o dell’analisi dell’iride, che può evidenziare l’uso di alcool o di sostanze stupefacenti. Queste informazioni così delicate sono assunte indipendentemente dalla volontà del soggetto e accrescono i rischi della “profilatura”, perché potrebbero essere utilizzate, a sua insaputa, ad esempio nella selezione per un posto di lavoro, nella concessione di un mutuo o nel calcolo del premio di una polizza assicurativa. Inoltre, la creazione di banche dati informatizzate apre una serie di questioni derivanti non solo dalla natura e dal numero d’informazioni che possono essere raccolte ma anche dai diversi usi che se ne possono fare (il problema non è costituito dall’assunzione del singolo dato che si esaurisce all’interno di uno specifico evento ma la sua conservazione tendenzialmente senza limiti di tempo all’interno di un sistema informatico). Già dalla fine degli anni sessanta la nascente industria informatica aveva automatizzato le tecniche di rilevazione di alcuni dati biometrici (tra cui quello delle impronte digitali e della struttura dell’iride). Esse erano costruite, come lo sono ancora oggi, a partire da un lettore (scanner) che riproduce su un supporto elettronico i dati biometrici della persona (forma dell’iride, impronte digitali, geometria del volto …) e un software che li converte in forma digitale attraverso un algoritmo e, poiché gli algoritmi usati sono diversi, ogni sistema biometrico crea diversi modelli (template) della stessa caratteristica fisica e, a seconda del tipo di identificazione scelta, si registrano diversi parametri di affidabilità in riferimento all’esito. Ma, se allora, tali tecnologie erano molto costose e poco affidabili, oggi, la situazione è mutata radicalmente fino a far intravedere la possibilità di scenari che sono ancora difficili da prevedere sia dal punto di vista etico-antropologico che giuridico dal momento che esse, come «dispositivi di impossessamento», operano a diversi livelli. Il primo, il più evidente, è dovuto alla dispersione delle molteplici tracce che lasciamo e che, una volta manipolate e rielaborate, ci sono sottratte e costituiscono un’immagine fittizia di noi stessi che si sovrappone a quella reale, classificando, emarginando e, talvolta, condannando. Un secondo livello di analisi dei possibili effetti della biometria sembra incidere ancora più radicalmente sugli spazi di libertà nel caso della prossima sostituzione di ogni dato anagrafico (carta d’identità) con il dato biometrico da cui potrebbe derivare una nuova forma di dovere sociale, quello di mantenere intatti i propri dati biometrici venendo, così, meno uno degli elementi fondamentali dell’identità personale: il diritto di costruire la propria immagine. La complessa questione sottostante a tali livelli di analisi deriva da un corpo che, sempre più virtuale e schedato in banche dati, rischia di essere ridotto – spogliato di ogni “connotato egoico” (intenzionale) – a mero oggetto di natura sottoposto all’analisi sperimentale, un mero accumulo di dati: una fonte diretta di informazioni delle quali la persona non dispone se non in maniera ridotta. Infatti, le “tracce e i dati” misurati dai sistemi biometrici possono essere sottratte al suo titolare con i relativi pericoli d’errore che potrebbero condurre a falsificazioni d’identità o a sdoppiamenti di personalità, con un grave danno alla dignità della persona nell’esercizio delle sue facoltà e interessi giuridici, fino a giungere al c.d. furto della personalità, attraverso l’acquisizione fraudolenta dei dati. Come ha messo in luce il CNB risultano a questo punto evidenti «le profonde influenze psicosociali che comunque la biometria avrà nel prossimo futuro, compresa la possibile sensazione di incertezza rispetto all’immagine di sé e alla propria capacità di venire riconosciuti dai sistemi biometrici». La tecnica si mostra sempre più in grado di penetrare i corpi ma sono corpi che, paradossalmente, pur investendoci con la loro presenza massiccia, si destrutturano, divengono oggetti privi di personalità, in un’opacità che non rivela la persona, ma la vela o, addirittura, la smarrisce: sono i corpi scrutati dai sistemi biometrici che non guardano negli occhi ma si limitano a guardare gli occhi, non contemplano un viso ma lo “svisano” spogliandolo di se stesso ed applicando ad esso la maschera vuota dell’anonimato. Ma, se esiste un diritto alla visibilità, una sorta di habeas corpus che garantisce il proprio esserci in prima persona, esiste anche un diritto all’invisibilità – alla privacy – che assicura la possibilità di dileguarsi quando l’essere visti diventa arbitraria esposizione. L’esigenza di regolare il conflitto di interessi in questione, alla tutela della vita privata di ognuno (privacy) ed alla sicurezza di tutti, scorre proprio sul filo di un evidente paradosso: che le tecniche mediante le quali, in ossequio alle pressanti ragioni di sicurezza, è ormai possibile ed ordinaria l’intromissione nella vita privata di ciascuno non si risolvano invece in strumenti di insicurezza derivata. Il Gruppo per la tutela della persone con riguardo al trattamento dei dati personali, nel documento adottato nell’agosto del 2003, ha sottolineato la necessità che, a fronte del rapido sviluppo delle tecnologie biometriche ed all’estensione della loro applicazione, sia posta nel dovuto riguardo la questione della tutela dei dati. Come si vede, non vi è livello della riflessione scientifica che non si interroghi sull’opportunità che il diritto alla riservatezza sia sacrificato, e se sì in che misura, alle istanze di sicurezza cui il decisore pubblico intenda rispondere. E questo anche perché, da ogni parte, se ne rileva la potenziale deriva dis-umanizzante, perché tendente a ridurre la persona a misure biometriche ed il corpo a somma di dati ed informazioni liberamente attingibili. Il tema è denso di criticità e questioni di difficile chiusura, se si pensa al sacrificio cui le tecniche biometriche sottopongono il diritto a non conoscere od a rifiutare oltre che il più immediato diritto alla tutela della sfera privata. Il rischio da più parti avvertito riguarda la possibilità che lo strumento tecnologico si polarizzi sempre più sul corpo umano, sino a smarrire il valore autentico e, per certi versi, inesprimibile di ciascuno, nell’alveo del patrimonio genetico, rilevabile e misurabile.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.