Le esigenze mitico-simboliche dell’ancora giovane Regno d’Italia svolgono una parte importante nella ‘gestione pubblica’ della guerra per la conquista dei vilayet turchi della Tripolitania e della Cirenaica. In un quadro di euforia (anche se, per molti aspetti, forzata), la guerra è percepita e vissuta, dalla parte più consapevole dell’opinione pubblica, come la vetrina della ‘nuova Italia’, e tale carattere influisce pesantemente sulle logiche della sua narrazione. In questo senso, la guerra di Libia matura e si dipana (almeno nelle sue fasi iniziali) in un ambito – esplicitamente o implicitamente – risorgimentale, sabaudo e conservatore, solo in parte antagonizzato, da un lato, dalle pulsioni di marca dannunziana a un attivismo essenzialmente estetizzante, dall’altro dagli appelli – paternalistici e, in certo grado, populistici – di quanti auspicano, attraverso la guerra e conquista della mitizzata ‘Quarta sponda’, l’atteso risveglio della ‘grande proletaria’. La cura dedicata all’approntamento della forza di spedizione e alla pianificazione delle operazioni militari, il vasto spiegamento di risorse (umane e materiali), l’impiego su larga scala della tecnologia più recente contribuiscono, in questa prospettiva, a rafforzare l’immagine (e il carattere) della guerra come fenomeno essenzialmente ‘moderno’, come scontro, cioè, fra ‘vecchio’ e ‘nuovo’. Ciò non solo fra due belligeranti che anche a livello iconografico assumono in sé i tratti distintivi di questa dicotomia, quanto soprattutto, all’interno del Paese, fra chi, appellandosi a una riscoperta ‘filosofia dell’azione’, vedeva nella guerra l’occasione di uscire dal ‘gramo quotidiano’ della politica giolittiana e chi, al contrario, nell’azione del politico di Dronero vedeva il tentativo di rivitalizzare le potenzialità dello Stato liberale attraverso l’ammissione nel gioco politico quelle che – tradizionalmente – erano considerate realtà e componenti antisistemiche. Indipendentemente dagli esiti concreti, la guerra di Libia, rappresenta quindi, in questa prospettiva, un passaggio periodizzante nell’evoluzione dell’identità e della cultura politica nazionali. Per i suoi fautori, lo sforzo bellico costituisce l’attestazione della raggiunta maturità nazionale e la conferma del suo status acquisito di grande Potenza; in altre parole, la guerra contribuisce ad alimentare (traendo, dal processo, un surplus di legittimazione) l’atmosfera di soddisfazione e autocompiacimento legata al compimento del cinquantesimo anniversario dell’Unità nazionale. Di contro, le difficoltà politiche e militari emerse nel corso dell’impresa (largamente sottovalutate in sede di preparazione), l’inattesa durata delle ostilità e le diffuse frustrazioni provocate da tale stato di cose, avrebbero contribuito – nel lungo termine e in un quadro di esacerbata sensibilità nazionalista – a rafforzare nel Paese le stesse sindromi che la guerra mirava a curare. Non a caso, il lascito più rilevante del conflitto appare – in termini di cultura politica – la costante tensione fra ambizioni e realizzazioni, tensione che, a un livello più generale, si riflette nell’ambigua nostalgia e nel senso di occasione perduta con cui esso è guardata dagli stessi contemporanei. In un’ottica di lungo periodo, il rapporto della guerra di Libia con la modernità riguarda, quindi, non tanto l’aspetto tecnico o operativo, quanto il reticolo delle attese che essa coinvolge, il modo in cui è veicolata e le implicazioni che ha sulla società nel suo insieme. Quella di Libia è una guerra enfatica, ‘lirica’, in cui la retorica, in larga misura, fa premio sul pur ampio dibattito intorno all’intervento. Essa contribuisce, inoltre, in maniera chiara, a strutturare la visione italiana delle cose internazionali in un senso più chiaramente ed esplicitamente aggressivo, spianando la via a quelle che – di lì a qualche anno – sarebbero state le ‘radiose giornate di maggio’ e la scelta di intervenire, accanto alla Potenze dell’Intesa, nel primo conflitto mondiale.

Pastori, G., Libia 1911: una guerra della modernità?, in Micheletta, L., Ungari, A. (ed.), L'Italia e la guerra di Libia cent'anni dopo, Edizioni Studium, Roma 2013: 216- 236 [http://hdl.handle.net/10807/52177]

Libia 1911: una guerra della modernità?

Pastori, Gianluca
2013

Abstract

Le esigenze mitico-simboliche dell’ancora giovane Regno d’Italia svolgono una parte importante nella ‘gestione pubblica’ della guerra per la conquista dei vilayet turchi della Tripolitania e della Cirenaica. In un quadro di euforia (anche se, per molti aspetti, forzata), la guerra è percepita e vissuta, dalla parte più consapevole dell’opinione pubblica, come la vetrina della ‘nuova Italia’, e tale carattere influisce pesantemente sulle logiche della sua narrazione. In questo senso, la guerra di Libia matura e si dipana (almeno nelle sue fasi iniziali) in un ambito – esplicitamente o implicitamente – risorgimentale, sabaudo e conservatore, solo in parte antagonizzato, da un lato, dalle pulsioni di marca dannunziana a un attivismo essenzialmente estetizzante, dall’altro dagli appelli – paternalistici e, in certo grado, populistici – di quanti auspicano, attraverso la guerra e conquista della mitizzata ‘Quarta sponda’, l’atteso risveglio della ‘grande proletaria’. La cura dedicata all’approntamento della forza di spedizione e alla pianificazione delle operazioni militari, il vasto spiegamento di risorse (umane e materiali), l’impiego su larga scala della tecnologia più recente contribuiscono, in questa prospettiva, a rafforzare l’immagine (e il carattere) della guerra come fenomeno essenzialmente ‘moderno’, come scontro, cioè, fra ‘vecchio’ e ‘nuovo’. Ciò non solo fra due belligeranti che anche a livello iconografico assumono in sé i tratti distintivi di questa dicotomia, quanto soprattutto, all’interno del Paese, fra chi, appellandosi a una riscoperta ‘filosofia dell’azione’, vedeva nella guerra l’occasione di uscire dal ‘gramo quotidiano’ della politica giolittiana e chi, al contrario, nell’azione del politico di Dronero vedeva il tentativo di rivitalizzare le potenzialità dello Stato liberale attraverso l’ammissione nel gioco politico quelle che – tradizionalmente – erano considerate realtà e componenti antisistemiche. Indipendentemente dagli esiti concreti, la guerra di Libia, rappresenta quindi, in questa prospettiva, un passaggio periodizzante nell’evoluzione dell’identità e della cultura politica nazionali. Per i suoi fautori, lo sforzo bellico costituisce l’attestazione della raggiunta maturità nazionale e la conferma del suo status acquisito di grande Potenza; in altre parole, la guerra contribuisce ad alimentare (traendo, dal processo, un surplus di legittimazione) l’atmosfera di soddisfazione e autocompiacimento legata al compimento del cinquantesimo anniversario dell’Unità nazionale. Di contro, le difficoltà politiche e militari emerse nel corso dell’impresa (largamente sottovalutate in sede di preparazione), l’inattesa durata delle ostilità e le diffuse frustrazioni provocate da tale stato di cose, avrebbero contribuito – nel lungo termine e in un quadro di esacerbata sensibilità nazionalista – a rafforzare nel Paese le stesse sindromi che la guerra mirava a curare. Non a caso, il lascito più rilevante del conflitto appare – in termini di cultura politica – la costante tensione fra ambizioni e realizzazioni, tensione che, a un livello più generale, si riflette nell’ambigua nostalgia e nel senso di occasione perduta con cui esso è guardata dagli stessi contemporanei. In un’ottica di lungo periodo, il rapporto della guerra di Libia con la modernità riguarda, quindi, non tanto l’aspetto tecnico o operativo, quanto il reticolo delle attese che essa coinvolge, il modo in cui è veicolata e le implicazioni che ha sulla società nel suo insieme. Quella di Libia è una guerra enfatica, ‘lirica’, in cui la retorica, in larga misura, fa premio sul pur ampio dibattito intorno all’intervento. Essa contribuisce, inoltre, in maniera chiara, a strutturare la visione italiana delle cose internazionali in un senso più chiaramente ed esplicitamente aggressivo, spianando la via a quelle che – di lì a qualche anno – sarebbero state le ‘radiose giornate di maggio’ e la scelta di intervenire, accanto alla Potenze dell’Intesa, nel primo conflitto mondiale.
2013
Italiano
L'Italia e la guerra di Libia cent'anni dopo
9788838242472
Pastori, G., Libia 1911: una guerra della modernità?, in Micheletta, L., Ungari, A. (ed.), L'Italia e la guerra di Libia cent'anni dopo, Edizioni Studium, Roma 2013: 216- 236 [http://hdl.handle.net/10807/52177]
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