Parigi, 1270: l’Università più prestigiosa del mondo latino medievale è scossa da un vivace dibattito sulla natura dell’anima e dell’intelletto umani. Al centro della disputa sta l’insegnamento di Sigieri di Brabante, maestro belga della Facoltà delle Arti. Alcune sue tesi provocano il “santo furore” di Tommaso d’Aquino e vengono colpite dalle condanne ecclesiastiche del 1270 e del 1277. Nei testi, che presentiamo per la prima volta in traduzione italiana, Sigieri avrebbe assunto una pericolosa prospettiva “averroista”, che lo conduce nelle Questioni sul terzo libro del De anima a sostenere che esiste un unico intelletto per tutta la specie umana. Ma se le cose stanno davvero in questo modo, che cosa ne è allora della nostra individualità, della responsabilità personale delle nostre azioni, delle promesse cristiane di salvezza e di resurrezione? Accusato dai suoi contemporanei di “averroismo”, Sigieri ha messo in evidenza, con una lucidità davvero sorprendente, le principali difficoltà speculative legate alla concezione aristotelica dell’anima umana e dell’intelletto umani. Teologi come Alberto Magno e Tommaso d’Aquino avevano attribuito al filosofo islamico Averroè il merito di avere fornito una spiegazione finalmente convincente del controverso pensiero aristotelico, fatte però salve alcune importanti riserve. Sigieri intende invece andare fino in fondo, una volta assunti certi principi, senza timore di tirarne filosoficamente tutte le conseguenze, anche quando vanno contro la fede cristiana. Questa spregiudicatezza, come Sigieri spiega ne L’anima intellettiva, non nasce da una mentalità anticlericale o da incredulità, ma dalla persuasione che fede e ragione generano due percorsi ben distinti: solo la fede infatti ci consegna la “verità che non può mentire”; ciò però non significa che si debba ostacolare il dispiegarsi completo dell’indagine razionale. Chi vive senza l’esercizio continuo della ragione – dice Sigieri parafrasando Seneca – è come se fosse già morto. In forza di queste convinzioni, che gli hanno meritato un posto nel Paradiso di Dante Alighieri, alla destra dello stesso san Tommaso, Sigieri si pone autorevolmente in un confronto serrato con quelli che consideriamo i “grandi” del suo tempo, suscitando quell’“averroismo” che ancora nella modernità farà sentire nitidi i suoi echi.
Petagine, A., Sigieri di Brabante, Anima dell'uomo. Questioni sul terzo libro del "De anima" di Aristotele; L'anima intellettiva, Bompiani, MILANO -- ITA 2007: 383 [http://hdl.handle.net/10807/41945]
Sigieri di Brabante, Anima dell'uomo. Questioni sul terzo libro del "De anima" di Aristotele; L'anima intellettiva
Petagine, Antonio
2007
Abstract
Parigi, 1270: l’Università più prestigiosa del mondo latino medievale è scossa da un vivace dibattito sulla natura dell’anima e dell’intelletto umani. Al centro della disputa sta l’insegnamento di Sigieri di Brabante, maestro belga della Facoltà delle Arti. Alcune sue tesi provocano il “santo furore” di Tommaso d’Aquino e vengono colpite dalle condanne ecclesiastiche del 1270 e del 1277. Nei testi, che presentiamo per la prima volta in traduzione italiana, Sigieri avrebbe assunto una pericolosa prospettiva “averroista”, che lo conduce nelle Questioni sul terzo libro del De anima a sostenere che esiste un unico intelletto per tutta la specie umana. Ma se le cose stanno davvero in questo modo, che cosa ne è allora della nostra individualità, della responsabilità personale delle nostre azioni, delle promesse cristiane di salvezza e di resurrezione? Accusato dai suoi contemporanei di “averroismo”, Sigieri ha messo in evidenza, con una lucidità davvero sorprendente, le principali difficoltà speculative legate alla concezione aristotelica dell’anima umana e dell’intelletto umani. Teologi come Alberto Magno e Tommaso d’Aquino avevano attribuito al filosofo islamico Averroè il merito di avere fornito una spiegazione finalmente convincente del controverso pensiero aristotelico, fatte però salve alcune importanti riserve. Sigieri intende invece andare fino in fondo, una volta assunti certi principi, senza timore di tirarne filosoficamente tutte le conseguenze, anche quando vanno contro la fede cristiana. Questa spregiudicatezza, come Sigieri spiega ne L’anima intellettiva, non nasce da una mentalità anticlericale o da incredulità, ma dalla persuasione che fede e ragione generano due percorsi ben distinti: solo la fede infatti ci consegna la “verità che non può mentire”; ciò però non significa che si debba ostacolare il dispiegarsi completo dell’indagine razionale. Chi vive senza l’esercizio continuo della ragione – dice Sigieri parafrasando Seneca – è come se fosse già morto. In forza di queste convinzioni, che gli hanno meritato un posto nel Paradiso di Dante Alighieri, alla destra dello stesso san Tommaso, Sigieri si pone autorevolmente in un confronto serrato con quelli che consideriamo i “grandi” del suo tempo, suscitando quell’“averroismo” che ancora nella modernità farà sentire nitidi i suoi echi.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.