La legge 219/2017 delinea una precisa procedura per fissare le volontà personali in materia di trattamenti sanitari e per esprimere il consenso o il rifiuto rispetto a scelte terapeutiche o a singoli trattamenti, in previsione di un’eventuale sopravvenuta incapacità di autodeterminarsi: in ciò consistono le disposizioni anticipate di trattamento (DAT). L’evenienza che le DAT non vengano formulate, tuttavia, non pare irrealistica, complesse sono le procedure e l’idea di dover decidere sul fine vita non è ancora culturalmente radicata. Lo scenario che si apre è duplice: si potrebbe considerare che le forme prescritte per rendere le disposizioni anticipate di trattamento costituiscano una forma esclusiva per esprimere le proprie scelte di fine vita. In tal caso, la mancata redazione delle DAT potrebbe essere assunta come indice del fatto che il soggetto non abbia voluto esprimersi e le scelte sulla vita del paziente sarebbero rimesse alle decisioni dei medici. Diversamente potrebbe ritenersi che le forme prescritte dalla normativa di recente introduzione costituiscano solo un modo certificato per fissare pro futuro le proprie volontà. In tal caso potrebbe ammettersi la prova circa l’effettiva volontà del singolo rispetto ai trattamenti salvavita, secondo il meccanismo del substitutive judgement adottato dalle Corti americane: era proprio questa l’ipotesi che si era posta con il caso Englaro. Il problema rimane aperto. Qualora si ammettesse la possibilità di provare le volontà del soggetto con modalità diverse da quelle prescritte dalla legge, potrebbe essere scriminata la condotta del sanitario che interrompesse il trattamento salvavita?

Maldonato, L., L’interruzione di un trattamento salvavita in assenza di DAT: quali spazi per il consenso presunto? , 2019, URL: https://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2019/01/maldonato_fine-vita_gp_2019_1bis.pdf [https://hdl.handle.net/10807/324501]

L’interruzione di un trattamento salvavita in assenza di DAT: quali spazi per il consenso presunto?

Maldonato, Lucia
Primo
2019

Abstract

La legge 219/2017 delinea una precisa procedura per fissare le volontà personali in materia di trattamenti sanitari e per esprimere il consenso o il rifiuto rispetto a scelte terapeutiche o a singoli trattamenti, in previsione di un’eventuale sopravvenuta incapacità di autodeterminarsi: in ciò consistono le disposizioni anticipate di trattamento (DAT). L’evenienza che le DAT non vengano formulate, tuttavia, non pare irrealistica, complesse sono le procedure e l’idea di dover decidere sul fine vita non è ancora culturalmente radicata. Lo scenario che si apre è duplice: si potrebbe considerare che le forme prescritte per rendere le disposizioni anticipate di trattamento costituiscano una forma esclusiva per esprimere le proprie scelte di fine vita. In tal caso, la mancata redazione delle DAT potrebbe essere assunta come indice del fatto che il soggetto non abbia voluto esprimersi e le scelte sulla vita del paziente sarebbero rimesse alle decisioni dei medici. Diversamente potrebbe ritenersi che le forme prescritte dalla normativa di recente introduzione costituiscano solo un modo certificato per fissare pro futuro le proprie volontà. In tal caso potrebbe ammettersi la prova circa l’effettiva volontà del singolo rispetto ai trattamenti salvavita, secondo il meccanismo del substitutive judgement adottato dalle Corti americane: era proprio questa l’ipotesi che si era posta con il caso Englaro. Il problema rimane aperto. Qualora si ammettesse la possibilità di provare le volontà del soggetto con modalità diverse da quelle prescritte dalla legge, potrebbe essere scriminata la condotta del sanitario che interrompesse il trattamento salvavita?
2019
Italiano
Maldonato, L., L’interruzione di un trattamento salvavita in assenza di DAT: quali spazi per il consenso presunto? , 2019, URL: https://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2019/01/maldonato_fine-vita_gp_2019_1bis.pdf [https://hdl.handle.net/10807/324501]
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