Introdotto dal legislatore nel 2017, fino allo scoppio della pandemia di Covid-19, il lavoro agile ha rappresentato un istituto marginale in Italia, non ricevendo un’accoglienza significativamente migliore rispetto al telelavoro, ovvero all’altra figura di c.d. remote working nota (da oltre vent’anni) al nostro ordinamento. Il repentino imporsi del distanziamento fisico quale misura cardine per la prevenzione del contagio ha improvvisamente portato il lavoro agile – più volentieri veicolato sui mezzi di comunicazione con l’inglese smart working – ad essere una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro assolutamente prevalente nel settore pubblico e largamente presente in quello privato. Questo balzo quantitativo è stato reso possibile, sotto il profilo normativo, dall’introduzione di alcune deroghe temporanee alla disciplina legislativa generale (su tutte quella del principio consensuale presidiata dall’accordo individuale) che, in combinazione con l’effetto di altre norme eccezionali (in particolare le limitazioni alla libertà di circolazione e il conseguente, pur graduabile, confinamento al domicilio) ha generato una sorta di “variante emergenziale” del lavoro agile, che vive il paradosso di essere una figura giuridicamente precaria destinata al superamento, ma contestualmente anche la forma mediante la quale l’istituto, al netto della contrazione dei numeri avutasi dopo il primo “lockdown”, sta mettendo radici nell’ordinamento giuridico e nelle prassi individuali e collettive. Inoltre, la legislazione pandemica sul lavoro agile ha evidenziato una polifunzionalità dell’istituto ulteriore rispetto a quella duplice originaria (incremento della competitività, conciliazione dei tempi di vita e di lavoro), prefigurando l’inserimento stabile tra le finalità dell’istituto anche di funzioni di tipo assistenziale che, già presenti nelle prime interpolazioni della disciplina legislativa ordinaria, sono divenute più numerose e più cogenti, con la previsione di situazioni personali del lavoratore in cui l’opzione per il lavoro agile viene sottratta all’autonomia contrattuale e assurge non solo a un criterio di priorità, ma ad una situazione giuridica soggettiva che è stata definita come “diritto” o, almeno, “aspettativa di diritto”. In questo contesto, il cambiamento di maggior portata strutturale sembra riguardare il settore pubblico, poiché il legislatore dell’emergenza ha scelto di cogliere l’occasione dello shock organizzativo generato dall’impiego forzoso dell’istituto allo scopo di innescare una revisione complessiva dei processi di lavoro all’interno della pubblica amministrazione. Tale scelta, assunta a partire dall’art. 263 del c.d. Decreto Rilancio e, nel corso di pochi mesi, soggetta a significative oscillazioni, ha immediatamente posto all’ordine del giorno la questione della revisione del sistema delle fonti del lavoro agile, in particolare nel rapporto tra legge, direttive ministeriali, contrattazione collettiva (originariamente marginalizzata ma evidentemente chiamata in causa dal rilievo quantitativo acquisito dall’istituto nella realtà) e contrattazione individuale (originariamente centrale alla luce delle funzioni dell’istituto e oggi alla ricerca di soluzioni nuove per non essere declassata a mero adempimento formale).
Servetti, D., L’evoluzione della regolazione del lavoro agile nella PA durante la pandemia, tra polifunzionalità dell’istituto e prismaticità delle questioni emergenti dalla sua applicazione, in Balduzzi, G., Monica, A. (ed.), Amministrazioni e digitalizzazione nella pandemia, KEY Editore, Milano 2021: 25- 60 [http://hdl.handle.net/10807/186794]
L’evoluzione della regolazione del lavoro agile nella PA durante la pandemia, tra polifunzionalità dell’istituto e prismaticità delle questioni emergenti dalla sua applicazione
Servetti, Davide
2021
Abstract
Introdotto dal legislatore nel 2017, fino allo scoppio della pandemia di Covid-19, il lavoro agile ha rappresentato un istituto marginale in Italia, non ricevendo un’accoglienza significativamente migliore rispetto al telelavoro, ovvero all’altra figura di c.d. remote working nota (da oltre vent’anni) al nostro ordinamento. Il repentino imporsi del distanziamento fisico quale misura cardine per la prevenzione del contagio ha improvvisamente portato il lavoro agile – più volentieri veicolato sui mezzi di comunicazione con l’inglese smart working – ad essere una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro assolutamente prevalente nel settore pubblico e largamente presente in quello privato. Questo balzo quantitativo è stato reso possibile, sotto il profilo normativo, dall’introduzione di alcune deroghe temporanee alla disciplina legislativa generale (su tutte quella del principio consensuale presidiata dall’accordo individuale) che, in combinazione con l’effetto di altre norme eccezionali (in particolare le limitazioni alla libertà di circolazione e il conseguente, pur graduabile, confinamento al domicilio) ha generato una sorta di “variante emergenziale” del lavoro agile, che vive il paradosso di essere una figura giuridicamente precaria destinata al superamento, ma contestualmente anche la forma mediante la quale l’istituto, al netto della contrazione dei numeri avutasi dopo il primo “lockdown”, sta mettendo radici nell’ordinamento giuridico e nelle prassi individuali e collettive. Inoltre, la legislazione pandemica sul lavoro agile ha evidenziato una polifunzionalità dell’istituto ulteriore rispetto a quella duplice originaria (incremento della competitività, conciliazione dei tempi di vita e di lavoro), prefigurando l’inserimento stabile tra le finalità dell’istituto anche di funzioni di tipo assistenziale che, già presenti nelle prime interpolazioni della disciplina legislativa ordinaria, sono divenute più numerose e più cogenti, con la previsione di situazioni personali del lavoratore in cui l’opzione per il lavoro agile viene sottratta all’autonomia contrattuale e assurge non solo a un criterio di priorità, ma ad una situazione giuridica soggettiva che è stata definita come “diritto” o, almeno, “aspettativa di diritto”. In questo contesto, il cambiamento di maggior portata strutturale sembra riguardare il settore pubblico, poiché il legislatore dell’emergenza ha scelto di cogliere l’occasione dello shock organizzativo generato dall’impiego forzoso dell’istituto allo scopo di innescare una revisione complessiva dei processi di lavoro all’interno della pubblica amministrazione. Tale scelta, assunta a partire dall’art. 263 del c.d. Decreto Rilancio e, nel corso di pochi mesi, soggetta a significative oscillazioni, ha immediatamente posto all’ordine del giorno la questione della revisione del sistema delle fonti del lavoro agile, in particolare nel rapporto tra legge, direttive ministeriali, contrattazione collettiva (originariamente marginalizzata ma evidentemente chiamata in causa dal rilievo quantitativo acquisito dall’istituto nella realtà) e contrattazione individuale (originariamente centrale alla luce delle funzioni dell’istituto e oggi alla ricerca di soluzioni nuove per non essere declassata a mero adempimento formale).I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.