A riguardo dell’autorità, nessuna affermazione va (più) da sé e occuparsene significa necessariamente partire dal vuoto: dalla comune esperienza di una assenza. Non che si sia persa l’esperienza dell’autorità: semplicemente essa sembra essere divenuta, a livello di senso comune, l’esperienza di una mancanza, di un oggetto che sta costantemente dinanzi a noi come qualcosa di assolutamente impenetrabile. L’esperienza che ne abbiamo somiglia molto alla percezione tattile e visiva di una superficie convessa e impermeabile che non consente alcun attraversamento: una superficie che però intuiamo celare un lato concavo e pieno. Essa racchiude un contenuto, una pienezza, ma una pienezza a noi inaccessibile e preclusa. Ogni nostro discorso de auctoritate sembra dunque un discorso dall’esterno, un discorso da stranieri che non sanno cosa significhi abitare l’autorità. Ne intuiamo la ricchezza, ma essa non sembra (più) appartenerci. In realtà, anche noi abitatori della tarda modernità rimaniamo in qualche modo abitatori dell’autorità, alla quale ci legano necessariamente alcune condizioni fondamentali della nostra soggettività e della nostra socialità di donne e uomini. Ciò che è divenuto problematico è piuttosto la possibilità di comprendere questo nostro rapporto, per certi versi paradossalmente ambiguo e fusionale, con l’autorità. Sia perché siamo in difetto di categorie, dato che l’assetto intellettuale della modernità occidentale fatica a pensare insieme libertà e legame, autonomia e autorità. Sia perché siamo ad un tempo troppo vicini e troppo lontani dall’autorità: viviamo una soggettività e una socialità essenzialmente improntate ad una struttura di autorità, ma l’esperienza di questa autorità rischia di configurarsi sempre come la frustrante esperienza di un vuoto, di qualcosa che si dà soltanto nei modi della mancanza o della delusione (giacché, anche quando si presenta, l’autorità risulta quasi sempre insoddisfacente). Essa appare come qualcosa che cerchiamo e dal quale sempre fuggiamo, di modo che viviamo la paradossale condizione di chi non può non cercare l’autorità e al contempo non può non fuggire da ogni autorità. Per maggiore chiarezza, la questione deve essere articolata perlomeno su tre differenti livelli. Il primo è quello che in termini filosofici si direbbe trascendentale, ovvero di una struttura di autorità che è in qualche misura essenziale alla costituzione della nostra soggettività e della nostra socialità. Il secondo livello è quello del riempimento contenutistico e contingente di questa struttura di autorità, che è sempre storicamente e culturalmente determinato: è il livello delle concretizzazioni, ma anche delle incarnazioni, dell’autorità. Il terzo livello, infine, riguarda la capacità di rendere conto di questa esperienza di autorità: è dunque il livello dei concetti e delle categorie, delle parole di cui disponiamo per raccontare e comprendere il nostro rapporto con l’autorità. La crisi nasce oggi dal fatto che i tre livelli non si corrispondono più: in particolare il primo livello non trova più riscontro negli altri due. Alla costituzione della nostra soggettività e della nostra socialità è ancora essenziale una struttura di autorità (primo livello), ma si è in grave difetto di contenuti e di incarnazioni dell’autorità (secondo livello) e di categorie che consentano di renderne conto (terzo livello). La crisi dell’autorità è dunque data dal fatto che viviamo soggettività e socialità che hanno l’autorità come loro condizione di possibilità, ma facciamo sempre esperienza di autorità mancanti o deludenti; con l’aggravante che non siamo in grado di dire cosa realmente ci manchi o ci deluda: di cosa siamo alla ricerca.

Biancu, S., La questione dell'autorità, in Biancu, S., Tognon, G. (ed.), Autorità: una questione aperta, Diabasis, Reggio Emilia 2010: <<I MURI BIANCHI>>, 9- 76 [http://hdl.handle.net/10807/15478]

La questione dell'autorità

Biancu, Stefano
2010

Abstract

A riguardo dell’autorità, nessuna affermazione va (più) da sé e occuparsene significa necessariamente partire dal vuoto: dalla comune esperienza di una assenza. Non che si sia persa l’esperienza dell’autorità: semplicemente essa sembra essere divenuta, a livello di senso comune, l’esperienza di una mancanza, di un oggetto che sta costantemente dinanzi a noi come qualcosa di assolutamente impenetrabile. L’esperienza che ne abbiamo somiglia molto alla percezione tattile e visiva di una superficie convessa e impermeabile che non consente alcun attraversamento: una superficie che però intuiamo celare un lato concavo e pieno. Essa racchiude un contenuto, una pienezza, ma una pienezza a noi inaccessibile e preclusa. Ogni nostro discorso de auctoritate sembra dunque un discorso dall’esterno, un discorso da stranieri che non sanno cosa significhi abitare l’autorità. Ne intuiamo la ricchezza, ma essa non sembra (più) appartenerci. In realtà, anche noi abitatori della tarda modernità rimaniamo in qualche modo abitatori dell’autorità, alla quale ci legano necessariamente alcune condizioni fondamentali della nostra soggettività e della nostra socialità di donne e uomini. Ciò che è divenuto problematico è piuttosto la possibilità di comprendere questo nostro rapporto, per certi versi paradossalmente ambiguo e fusionale, con l’autorità. Sia perché siamo in difetto di categorie, dato che l’assetto intellettuale della modernità occidentale fatica a pensare insieme libertà e legame, autonomia e autorità. Sia perché siamo ad un tempo troppo vicini e troppo lontani dall’autorità: viviamo una soggettività e una socialità essenzialmente improntate ad una struttura di autorità, ma l’esperienza di questa autorità rischia di configurarsi sempre come la frustrante esperienza di un vuoto, di qualcosa che si dà soltanto nei modi della mancanza o della delusione (giacché, anche quando si presenta, l’autorità risulta quasi sempre insoddisfacente). Essa appare come qualcosa che cerchiamo e dal quale sempre fuggiamo, di modo che viviamo la paradossale condizione di chi non può non cercare l’autorità e al contempo non può non fuggire da ogni autorità. Per maggiore chiarezza, la questione deve essere articolata perlomeno su tre differenti livelli. Il primo è quello che in termini filosofici si direbbe trascendentale, ovvero di una struttura di autorità che è in qualche misura essenziale alla costituzione della nostra soggettività e della nostra socialità. Il secondo livello è quello del riempimento contenutistico e contingente di questa struttura di autorità, che è sempre storicamente e culturalmente determinato: è il livello delle concretizzazioni, ma anche delle incarnazioni, dell’autorità. Il terzo livello, infine, riguarda la capacità di rendere conto di questa esperienza di autorità: è dunque il livello dei concetti e delle categorie, delle parole di cui disponiamo per raccontare e comprendere il nostro rapporto con l’autorità. La crisi nasce oggi dal fatto che i tre livelli non si corrispondono più: in particolare il primo livello non trova più riscontro negli altri due. Alla costituzione della nostra soggettività e della nostra socialità è ancora essenziale una struttura di autorità (primo livello), ma si è in grave difetto di contenuti e di incarnazioni dell’autorità (secondo livello) e di categorie che consentano di renderne conto (terzo livello). La crisi dell’autorità è dunque data dal fatto che viviamo soggettività e socialità che hanno l’autorità come loro condizione di possibilità, ma facciamo sempre esperienza di autorità mancanti o deludenti; con l’aggravante che non siamo in grado di dire cosa realmente ci manchi o ci deluda: di cosa siamo alla ricerca.
2010
Italiano
Autorità: una questione aperta
978-88-8103-675-2
Biancu, S., La questione dell'autorità, in Biancu, S., Tognon, G. (ed.), Autorità: una questione aperta, Diabasis, Reggio Emilia 2010: <<I MURI BIANCHI>>, 9- 76 [http://hdl.handle.net/10807/15478]
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