La modernità ci ha consegnato un’immagine di un essere umano totalmente indipendente, ritratto nella potenza del pensiero e dell’atto libero. Un’immagine che, però, si infrange sugli scogli concreti dell’esperienza della nostra fragilità fisica, psichica e spirituale. Vulnerabilità e dipendenza fanno parte della condizione umana, ma ci sono situazioni, come quella della malattia, che amplificandole le mettono in evidenza, facendo vacillare la solidità di quell’autorappresentazione astratta dell’umano che non ne tiene adeguatamente conto. In particolare è messa alla prova là dove la patologia attacca anche la sfera cognitiva. Primo Levi, ripensando a sé nei campi di concentramento, chiedeva al suo lettore “se questo è un uomo”. Non aveva certamente dubbi che si trattasse di un membro della specie umana: la sua domanda, scomoda e che condanna chi voglia distogliere lo sguardo, obbliga a riflettere su come debba essere trattato un uomo per essere rispettato come tale. Non solo: ci costringe a chiederci se siamo ancora capaci di vedere l’umano là dove tutto sembra nasconderlo. Analogamente, alcune condizioni patologiche possono a volte progressivamente mascherare l’umanità, ma è proprio qui che l’impegno per trattare l’uomo come tale mette alla prova, perché richiede in primo luogo un pensiero, capace poi di tradursi in atti concreti, che sappia riconoscere l’unicità del soggetto umano presente nonostante la malattia sembri occultarne la presenza. In particolare, lo stesso riferimento alla dignità della persona, tante volte invocato dalle carte dei servizi che proclamano di voler mettere la “persona al centro”, non deve dimenticare che la persona umana è una persona corporea. Nel riferirci e rapportarci alle persone umane, allora, occorrerà distinguere tre livelli: quello ontologico, che riguarda il nostro “essere delle persone umane”; quello conoscitivo, ossia del modo in cui possiamo sapere di essere alla presenza di una persona umana, anche quando la sua condizione ne occulta o modifica i tratti e il modo in cui si manifesta; quello che riguarda il modo irripetibile in cui ciascuno è una persona umana e l’autorappresentazione di sé e della propria identità. La domanda sulla persona riguarda un chi e non una cosa, e in quel chi è racchiusa l’insondabile unicità che rifiuta di essere adeguatamente descritta da una definizione. Le parole sono sempre povere per esprimere chi sia una persona, proprio perché usandole non possiamo fare altro che sussumere il particolare nell’universale. L’accesso all’identità dell’altro è invece sempre rivelata dalla presenzialità del suo corpo, dall’azione e dalla narrazione che, direttamente o indirettamente, fa di sé; di fatto il corpo costituisce la prima manifestazione dell’altro e non di rado, a causa di diverse patologie, si pone anche come l’ultimo baluardo della rivelazione del proprio sé personale di cui occorre imparare a riconoscere il linguaggio. Per usare parole di Dennett, il corpo costituisce il centro gravitazionale dell’identità narrativa della propria e altrui persona. Si tratta allora di ricordare che la patologia solo enfatizza, senza istituire, il segreto dell’altro e che ciascuno sempre eccede la narrazione che si può fare di lui. La conoscenza richiede dunque di affiancarsi e scoprire l’altro in una relazione che progressivamente ne permette lo svelamento. E là dove la parola evapora e il discorso diviene difficoltoso fino a scomparire, occorre sempre mettere in atto dispositivi che, riconoscendo il corpo come segno visibile della persona umana, ci ricordino il nostro essere alla presenza di un soggetto, la cui accentata fragilità lo espone al misconoscimento altrui, anche là dove l’azione standardizzata nasce paradossalmente proprio dalla volontà di prendersene cura. In questo svelamento personale all’interno della relazione va poi ricordato che anche il curante rivela un po’ della propria unicità, del proprio chi personale, attraverso le azioni che svolge e il modo in cui le realizza. È in tale orizzonte relazionale che i professionisti dell’assistenza sono chiamati ad integrare l’orizzonte scientifico e tecnico con quello personale del prendersi cura, per una professionalità che sia veramente all’altezza della sfida della complessità umana.
Colombetti, E., La persona corporea., in Pietro Vigorell, P. V. (ed.), L’altro volto dell’Alzheimer. Avere una demenza, essere una persona., Franco Angeli, MILANO -- ITA 2020: 115- 129 [http://hdl.handle.net/10807/151990]
La persona corporea.
Colombetti, Elena
Membro del Collaboration Group
2020
Abstract
La modernità ci ha consegnato un’immagine di un essere umano totalmente indipendente, ritratto nella potenza del pensiero e dell’atto libero. Un’immagine che, però, si infrange sugli scogli concreti dell’esperienza della nostra fragilità fisica, psichica e spirituale. Vulnerabilità e dipendenza fanno parte della condizione umana, ma ci sono situazioni, come quella della malattia, che amplificandole le mettono in evidenza, facendo vacillare la solidità di quell’autorappresentazione astratta dell’umano che non ne tiene adeguatamente conto. In particolare è messa alla prova là dove la patologia attacca anche la sfera cognitiva. Primo Levi, ripensando a sé nei campi di concentramento, chiedeva al suo lettore “se questo è un uomo”. Non aveva certamente dubbi che si trattasse di un membro della specie umana: la sua domanda, scomoda e che condanna chi voglia distogliere lo sguardo, obbliga a riflettere su come debba essere trattato un uomo per essere rispettato come tale. Non solo: ci costringe a chiederci se siamo ancora capaci di vedere l’umano là dove tutto sembra nasconderlo. Analogamente, alcune condizioni patologiche possono a volte progressivamente mascherare l’umanità, ma è proprio qui che l’impegno per trattare l’uomo come tale mette alla prova, perché richiede in primo luogo un pensiero, capace poi di tradursi in atti concreti, che sappia riconoscere l’unicità del soggetto umano presente nonostante la malattia sembri occultarne la presenza. In particolare, lo stesso riferimento alla dignità della persona, tante volte invocato dalle carte dei servizi che proclamano di voler mettere la “persona al centro”, non deve dimenticare che la persona umana è una persona corporea. Nel riferirci e rapportarci alle persone umane, allora, occorrerà distinguere tre livelli: quello ontologico, che riguarda il nostro “essere delle persone umane”; quello conoscitivo, ossia del modo in cui possiamo sapere di essere alla presenza di una persona umana, anche quando la sua condizione ne occulta o modifica i tratti e il modo in cui si manifesta; quello che riguarda il modo irripetibile in cui ciascuno è una persona umana e l’autorappresentazione di sé e della propria identità. La domanda sulla persona riguarda un chi e non una cosa, e in quel chi è racchiusa l’insondabile unicità che rifiuta di essere adeguatamente descritta da una definizione. Le parole sono sempre povere per esprimere chi sia una persona, proprio perché usandole non possiamo fare altro che sussumere il particolare nell’universale. L’accesso all’identità dell’altro è invece sempre rivelata dalla presenzialità del suo corpo, dall’azione e dalla narrazione che, direttamente o indirettamente, fa di sé; di fatto il corpo costituisce la prima manifestazione dell’altro e non di rado, a causa di diverse patologie, si pone anche come l’ultimo baluardo della rivelazione del proprio sé personale di cui occorre imparare a riconoscere il linguaggio. Per usare parole di Dennett, il corpo costituisce il centro gravitazionale dell’identità narrativa della propria e altrui persona. Si tratta allora di ricordare che la patologia solo enfatizza, senza istituire, il segreto dell’altro e che ciascuno sempre eccede la narrazione che si può fare di lui. La conoscenza richiede dunque di affiancarsi e scoprire l’altro in una relazione che progressivamente ne permette lo svelamento. E là dove la parola evapora e il discorso diviene difficoltoso fino a scomparire, occorre sempre mettere in atto dispositivi che, riconoscendo il corpo come segno visibile della persona umana, ci ricordino il nostro essere alla presenza di un soggetto, la cui accentata fragilità lo espone al misconoscimento altrui, anche là dove l’azione standardizzata nasce paradossalmente proprio dalla volontà di prendersene cura. In questo svelamento personale all’interno della relazione va poi ricordato che anche il curante rivela un po’ della propria unicità, del proprio chi personale, attraverso le azioni che svolge e il modo in cui le realizza. È in tale orizzonte relazionale che i professionisti dell’assistenza sono chiamati ad integrare l’orizzonte scientifico e tecnico con quello personale del prendersi cura, per una professionalità che sia veramente all’altezza della sfida della complessità umana.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.