La fine della Prima guerra mondiale pone agli Stati Uniti una sfida difficile. Dalla primavera del 1918, le loro truppe avevano cominciato a dare un contributo importante allo sforzo militare franco-britannico, prima nelle battaglie difensive seguite all’offensiva tedesca di primavera, quindi nella spinta ‘dei cento giorni’ che avrebbe portato – ai primi di novembre – al cedimento del fronte nemico. Parallelamente, il profilo diplomatico del Paese era cresciuto, soprattutto dopo l’enunciazione dei ‘Quattordici punti’ (8 gennaio 1918). Chiamate in causa come garanti di una ‘pace senza vittoria’, dopo la firma degli armistizi di novembre le autorità di Washington si sarebbero, quindi, trovate nella scomoda condizione di dovere definire una posizione che tenesse conto da un lato della necessità di condurre una politica ‘realista’ verso le loro controparti europee, dall’altro delle ambizioni nutrite dal Presidente Wilson e dal suo entourage di riformare integralmente il sistema dei rapporti interazionali pre-bellici. Il compito si sarebbe rivelato più arduo del previsto. Giunta a Parigi con un ricco bagaglio teorico ma una conoscenza limitata delle sensibilità europee, degli equilibri di forza e dei moventi che spingevano i diversi attori, la delegazione statunitense avrebbe fatto fatica ad adattarsi alle dinamiche del Vecchio continente. Questo avrebbe portato a tensioni violente, che a loro volta avrebbero condizionato la capacità del Presidente Wilson (che aveva avocato a sé la guida della delegazione) di conseguire i risultati che si era atteso. Le conseguenze sarebbero state da un lato una perdita di capacità negoziale e un irrigidirsi della posizione USA sui temi di principio, dall’altro un crescente accentramento del processo decisionale nella persona del Presidente. La debolezza interna di Wilson (che nelle elezioni del 1918 aveva perso la maggioranza congressuale che lo aveva sino allora sostenuto) avrebbe aggravato tale stato di cose, esponendo agli occhi degli interlocutori la fragilità della sua base di consenso. Nello scontro fra Wilson e i delegati italiani sulla questione adriatica questi temi emergono chiaramente. Il tentativo del Presidente di aggirare lo stallo cui erano giunti i negoziati attraverso l’appello diretto all'opinione pubblica (‘Dichiarazione sulla questione dell’Adriatico’, 23 aprile 1919) portò al temporaneo abbandono della Conferenza di Pace da parte del Presidente del Consiglio, Vittorio Emanuele Orlando, e del Ministro degli Esteri, Sidney Sonnino, senza favorire uno sblocco effettivo della situazione e, anzi, incancrenendo ulteriormente il problema. Nondimeno, l’impatto delle iniziative di Wilson sarebbe stato duraturo. Nel novembre del 1920, il trattato di Rapallo definiva il confine fra il Regno d'Italia e il neo-costituito Regno di Serbi, Croati e Sloveni (dal 1929 Regno di Jugoslavia), revocando de facto le previsioni del trattato di Londra e confermando l'ordine geopolitico dell’Adriatico post-asburgico prefigurato dal Presidente statunitense e che questi era stato incapace di realizzare
Pastori, G., Da Compiègne a Versailles: gli USA e la sfida della pace, L’Italia e la Grande Guerra. Il 1918. La vittoria e il sacrificio. Atti del Congresso di studi storici internazionali, Roma, 17-18 ottobre 2018, Stato Maggiore della Difesa, Roma 2019: 343-356 [http://hdl.handle.net/10807/142556]
Da Compiègne a Versailles: gli USA e la sfida della pace
Pastori, Gianluca
2019
Abstract
La fine della Prima guerra mondiale pone agli Stati Uniti una sfida difficile. Dalla primavera del 1918, le loro truppe avevano cominciato a dare un contributo importante allo sforzo militare franco-britannico, prima nelle battaglie difensive seguite all’offensiva tedesca di primavera, quindi nella spinta ‘dei cento giorni’ che avrebbe portato – ai primi di novembre – al cedimento del fronte nemico. Parallelamente, il profilo diplomatico del Paese era cresciuto, soprattutto dopo l’enunciazione dei ‘Quattordici punti’ (8 gennaio 1918). Chiamate in causa come garanti di una ‘pace senza vittoria’, dopo la firma degli armistizi di novembre le autorità di Washington si sarebbero, quindi, trovate nella scomoda condizione di dovere definire una posizione che tenesse conto da un lato della necessità di condurre una politica ‘realista’ verso le loro controparti europee, dall’altro delle ambizioni nutrite dal Presidente Wilson e dal suo entourage di riformare integralmente il sistema dei rapporti interazionali pre-bellici. Il compito si sarebbe rivelato più arduo del previsto. Giunta a Parigi con un ricco bagaglio teorico ma una conoscenza limitata delle sensibilità europee, degli equilibri di forza e dei moventi che spingevano i diversi attori, la delegazione statunitense avrebbe fatto fatica ad adattarsi alle dinamiche del Vecchio continente. Questo avrebbe portato a tensioni violente, che a loro volta avrebbero condizionato la capacità del Presidente Wilson (che aveva avocato a sé la guida della delegazione) di conseguire i risultati che si era atteso. Le conseguenze sarebbero state da un lato una perdita di capacità negoziale e un irrigidirsi della posizione USA sui temi di principio, dall’altro un crescente accentramento del processo decisionale nella persona del Presidente. La debolezza interna di Wilson (che nelle elezioni del 1918 aveva perso la maggioranza congressuale che lo aveva sino allora sostenuto) avrebbe aggravato tale stato di cose, esponendo agli occhi degli interlocutori la fragilità della sua base di consenso. Nello scontro fra Wilson e i delegati italiani sulla questione adriatica questi temi emergono chiaramente. Il tentativo del Presidente di aggirare lo stallo cui erano giunti i negoziati attraverso l’appello diretto all'opinione pubblica (‘Dichiarazione sulla questione dell’Adriatico’, 23 aprile 1919) portò al temporaneo abbandono della Conferenza di Pace da parte del Presidente del Consiglio, Vittorio Emanuele Orlando, e del Ministro degli Esteri, Sidney Sonnino, senza favorire uno sblocco effettivo della situazione e, anzi, incancrenendo ulteriormente il problema. Nondimeno, l’impatto delle iniziative di Wilson sarebbe stato duraturo. Nel novembre del 1920, il trattato di Rapallo definiva il confine fra il Regno d'Italia e il neo-costituito Regno di Serbi, Croati e Sloveni (dal 1929 Regno di Jugoslavia), revocando de facto le previsioni del trattato di Londra e confermando l'ordine geopolitico dell’Adriatico post-asburgico prefigurato dal Presidente statunitense e che questi era stato incapace di realizzareI documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.