La rete di testi che, sin dall’antichità, disegna l’Altrove come terra misteriosa, vergine - ma anche irta di pericoli e misteri - deve larga parte della propria consistenza alle descrizioni (orali, scritte, figurative) realizzate dai missionari europei. In anticipo, talvolta in concomitanza con le imprese coloniali, il rinnovato spirito missionario dell’Ottocento si accompagna all’interesse documentale ed esplorativo dei religiosi e coincide con l’invenzione – la fotografia – che promette di cogliere la realtà nel suo dispiegarsi, senza infingimenti. Gli istituti missionari fanno uso della fotografia sin dalla seconda metà del secolo XIX. I religiosi utilizzano le immagini fotografiche per raggiungere due scopi: documentare e dare notizia in patria delle proprie attività all’estero e ottenere aiuti economici per il finanziamento delle missioni. Nel fare questo, la fotografia (e il cinema che da essa prende vita, succedendole e/o affiancandosi spesso senza soluzione di continuità): offre sull’Altrove uno sguardo alternativo e non sempre complice del colonialismo; conferma necessariamente alcuni pregiudizi costruiti dall’Occidente (come l’inferiorità culturale dei “primitivi”, bisognosi pertanto di salvezza); disegna (o rafforza) l’idea dei costumi dei “selvaggi”, fornendo materiale per gli studi di antropologia ed etnografia; partecipa all’esibizione del corpo dell’Altro inviando materiale per esposizioni e mostre che si svolgono in Occidente (Piredda 2012). A fronte di una produzione molto ampia, gli studi sulla fotografia missionaria sono ancora limitati numericamente e spesso si concentrano su singoli casi (Schwarz 1970, Holland 1980, Rivoir 1981, Geary 1991, Landau 1994, Peers 1995, Triulzi 1995, Jenkins 1996, Garimoldi 1999, Edwards 2001, Bottomore 2002, Convents 2006, Osgnach 2013). L’Italia non sfugge a questa tendenza, pur essendo ormai assodato che tra i primi fotografi italiani si possano annoverare proprio dei missionari (Gilardi 1976). Probabilmente tale ritardo è dovuto, soprattutto quando si adotta il punto di vista degli studi antropologici, a una generale diffidenza verso gli oggetti di analisi (che si teme siano inficiati di retorica religiosa e colonialista). Allo stesso tempo è limitata l’attenzione conservativa da parte degli Istituti missionari stessi, per mancanza di risorse economiche più che di interesse, e non esistono progetti comuni che prevedano un confronto incrociato tra la produzione di tutti gli Istituti. Non senza dimenticare, infine, che raramente i missionari apponevano il proprio nome sulle fotografie, secondo la regola di umiltà prevista dal proprio voto. La letteratura di settore fatica, dunque, a mettere in ordine un corpus di immagini (fisse e in movimento) numericamente cospicuo e di indubbio valore storico e antropologico. Il presente intervento intende offrire, pur con i limiti sopra spiegati, una panoramica della fotografia missionaria prodotta da alcuni Istituti italiani nei primi tre decenni del Novecento. L’intento è quello di mettere in luce soggetti, stili, finalità e suggestioni (per esempio la fotografia antropometrica e quella criminale) operanti nella fotografia missionaria e di meglio delineare il volto del fotografo missionario.

Piredda, M. F., Hic sunt leones. Fotografia missionaria e immaginario esotico: l'incontro con l'Altrove, in Marmo, L., Menduni, E. (ed.), Fotografia e culture visuali del XXI secolo, RomaTrE-Press, Roma 2018: 249- 257 [http://hdl.handle.net/10807/118062]

Hic sunt leones. Fotografia missionaria e immaginario esotico: l'incontro con l'Altrove

Piredda, Maria Francesca
2018

Abstract

La rete di testi che, sin dall’antichità, disegna l’Altrove come terra misteriosa, vergine - ma anche irta di pericoli e misteri - deve larga parte della propria consistenza alle descrizioni (orali, scritte, figurative) realizzate dai missionari europei. In anticipo, talvolta in concomitanza con le imprese coloniali, il rinnovato spirito missionario dell’Ottocento si accompagna all’interesse documentale ed esplorativo dei religiosi e coincide con l’invenzione – la fotografia – che promette di cogliere la realtà nel suo dispiegarsi, senza infingimenti. Gli istituti missionari fanno uso della fotografia sin dalla seconda metà del secolo XIX. I religiosi utilizzano le immagini fotografiche per raggiungere due scopi: documentare e dare notizia in patria delle proprie attività all’estero e ottenere aiuti economici per il finanziamento delle missioni. Nel fare questo, la fotografia (e il cinema che da essa prende vita, succedendole e/o affiancandosi spesso senza soluzione di continuità): offre sull’Altrove uno sguardo alternativo e non sempre complice del colonialismo; conferma necessariamente alcuni pregiudizi costruiti dall’Occidente (come l’inferiorità culturale dei “primitivi”, bisognosi pertanto di salvezza); disegna (o rafforza) l’idea dei costumi dei “selvaggi”, fornendo materiale per gli studi di antropologia ed etnografia; partecipa all’esibizione del corpo dell’Altro inviando materiale per esposizioni e mostre che si svolgono in Occidente (Piredda 2012). A fronte di una produzione molto ampia, gli studi sulla fotografia missionaria sono ancora limitati numericamente e spesso si concentrano su singoli casi (Schwarz 1970, Holland 1980, Rivoir 1981, Geary 1991, Landau 1994, Peers 1995, Triulzi 1995, Jenkins 1996, Garimoldi 1999, Edwards 2001, Bottomore 2002, Convents 2006, Osgnach 2013). L’Italia non sfugge a questa tendenza, pur essendo ormai assodato che tra i primi fotografi italiani si possano annoverare proprio dei missionari (Gilardi 1976). Probabilmente tale ritardo è dovuto, soprattutto quando si adotta il punto di vista degli studi antropologici, a una generale diffidenza verso gli oggetti di analisi (che si teme siano inficiati di retorica religiosa e colonialista). Allo stesso tempo è limitata l’attenzione conservativa da parte degli Istituti missionari stessi, per mancanza di risorse economiche più che di interesse, e non esistono progetti comuni che prevedano un confronto incrociato tra la produzione di tutti gli Istituti. Non senza dimenticare, infine, che raramente i missionari apponevano il proprio nome sulle fotografie, secondo la regola di umiltà prevista dal proprio voto. La letteratura di settore fatica, dunque, a mettere in ordine un corpus di immagini (fisse e in movimento) numericamente cospicuo e di indubbio valore storico e antropologico. Il presente intervento intende offrire, pur con i limiti sopra spiegati, una panoramica della fotografia missionaria prodotta da alcuni Istituti italiani nei primi tre decenni del Novecento. L’intento è quello di mettere in luce soggetti, stili, finalità e suggestioni (per esempio la fotografia antropometrica e quella criminale) operanti nella fotografia missionaria e di meglio delineare il volto del fotografo missionario.
2018
Italiano
Fotografia e culture visuali del XXI secolo
978-88-94885-84-2
RomaTrE-Press
Piredda, M. F., Hic sunt leones. Fotografia missionaria e immaginario esotico: l'incontro con l'Altrove, in Marmo, L., Menduni, E. (ed.), Fotografia e culture visuali del XXI secolo, RomaTrE-Press, Roma 2018: 249- 257 [http://hdl.handle.net/10807/118062]
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