L’estate del 2017 ha idealmente rappresentato il momento più alto di una parabola che ha visto le comunità curde di Siria e Iraq tornare al centro dell’attenzione internazionale. Con la liberazione di Mosul dalla morsa del sedicente Stato Islamico (IS) nel giugno del 2017, la Regione Autonoma del Kurdistan in Iraq (KRI) pareva prossima ad addivenire a una storica indipendenza. Sul versante siriano, invece, l’accerchiamento delle ultime roccaforti del “Califfato” e la solida partnership intessuta con Washington sembravano consolidare la presa delle formazioni curde sui territori dell’autoproclamata regione autonoma di Rojava. In entrambi i contesti, e al di là della frammentazione profonda che aveva investito Iraq e Siria, determinante era risultato il contributo fornito dalle unità curde nella lotta alle milizie di Abu Bakr al-Baghdadi. Lo scontro durissimo ingaggiato contro le forze jihadiste aveva fatto (ri)scoprire ad ampi strati dell’opinione pubblica internazionale le istanze di comunità che a lungo erano state dimenticate, se non apertamente sacrificate a favore di relazioni con attori locali considerati di gran lunga più rilevanti. Rimaste in molti teatri l’ultimo baluardo in grado di contenere l’offensiva di IS, le diverse forze espressione delle comunità curde di Siria e Iraq erano divenute partner fondamentali nella lotta al “Califfato”, tanto da spingere un numero crescente di cancellerie a stringere rapporti sempre più stretti con questi attori. Eppure, nel giro di pochi mesi, questo scenario era cambiato drasticamente. La scelta della leadership della KRI di indire un referendum sull’indipendenza della regione si era ben presto rivelata un tragico errore. Come era prevedibile, la vittoria alle urne del fronte indipendentista non aveva fatto altro che rinsaldare le posizioni dei suoi principali oppositori. Sotto la pressione congiunta di Baghdad, Teheran e Ankara, e a fronte di profonde divisioni interne, le unità che presidiavano la città-chiave di Kirkuk avevano dovuto abbandonare le proprie posizioni; il tutto nel completo e assordante silenzio della comunità internazionale. Con la perdita della “Gerusalemme curda” veniva meno l’elemento essenziale del progetto indipendentista. La regione tornava, così, ai “confini” del 2003, lacerata da una crisi profonda che rischiava di mettere in dubbio la sua stessa coesione. Sul fronte siriano, invece, la vittoria ottenuta dalle Forze Democratiche Siriane (SDF) a Raqqa (ottobre 2017) inaugurava la fase finale della campagna contro IS, ma anche un nuovo capitolo dello scontro con Ankara, da sempre ostile al radicamento di una realtà considerata come una mera estensione del Partito Curdo dei Lavoratori (PKK) lungo i propri confini meridionali. Dopo aver sottratto alle SDF il cantone di Afrin nel marzo 2018 e aver minacciato lo scontro diretto con lo storico alleato americano qualora esso non avesse rivisto la propria politica nell’area, Erdogan incassava, nel dicembre dello stesso anno, la promessa dell’Amministrazione Trump di ritirare i propri contingenti di stanza a est dell’Eufrate. Una mossa considerata da molti come una sorta di “via libera” ai piani di Ankara e come l’ennesima dimostrazione dell’incostanza di Washington, pronta a sacrificare i propri alleati occasionali (le SDF) sull’altare di interessi considerati prioritari (la partnership con la Turchia). Per quanto determinanti, però, sarebbe però errato imputare la responsabilità della crisi che ha investito le comunità curde siro-irachene a soli fattori esterni. Dietro un’apparente facciata di unità, infatti, esse hanno dovuto fare i conti con agende interne profondamente divergenti e con un sistema di relazioni esterne profondamente articolato e segnato da visioni confliggenti, che spesso hanno finito col segnare in maniera determinante la loro libertà d’azione.

Plebani, A., Quale futuro per i curdi dalla Siria all'Iraq, <<VITA E PENSIERO>>, 2019; 2019 (2019/3): 16-22 [http://hdl.handle.net/10807/150094]

Quale futuro per i curdi dalla Siria all'Iraq

Plebani, Andrea
Primo
2019

Abstract

L’estate del 2017 ha idealmente rappresentato il momento più alto di una parabola che ha visto le comunità curde di Siria e Iraq tornare al centro dell’attenzione internazionale. Con la liberazione di Mosul dalla morsa del sedicente Stato Islamico (IS) nel giugno del 2017, la Regione Autonoma del Kurdistan in Iraq (KRI) pareva prossima ad addivenire a una storica indipendenza. Sul versante siriano, invece, l’accerchiamento delle ultime roccaforti del “Califfato” e la solida partnership intessuta con Washington sembravano consolidare la presa delle formazioni curde sui territori dell’autoproclamata regione autonoma di Rojava. In entrambi i contesti, e al di là della frammentazione profonda che aveva investito Iraq e Siria, determinante era risultato il contributo fornito dalle unità curde nella lotta alle milizie di Abu Bakr al-Baghdadi. Lo scontro durissimo ingaggiato contro le forze jihadiste aveva fatto (ri)scoprire ad ampi strati dell’opinione pubblica internazionale le istanze di comunità che a lungo erano state dimenticate, se non apertamente sacrificate a favore di relazioni con attori locali considerati di gran lunga più rilevanti. Rimaste in molti teatri l’ultimo baluardo in grado di contenere l’offensiva di IS, le diverse forze espressione delle comunità curde di Siria e Iraq erano divenute partner fondamentali nella lotta al “Califfato”, tanto da spingere un numero crescente di cancellerie a stringere rapporti sempre più stretti con questi attori. Eppure, nel giro di pochi mesi, questo scenario era cambiato drasticamente. La scelta della leadership della KRI di indire un referendum sull’indipendenza della regione si era ben presto rivelata un tragico errore. Come era prevedibile, la vittoria alle urne del fronte indipendentista non aveva fatto altro che rinsaldare le posizioni dei suoi principali oppositori. Sotto la pressione congiunta di Baghdad, Teheran e Ankara, e a fronte di profonde divisioni interne, le unità che presidiavano la città-chiave di Kirkuk avevano dovuto abbandonare le proprie posizioni; il tutto nel completo e assordante silenzio della comunità internazionale. Con la perdita della “Gerusalemme curda” veniva meno l’elemento essenziale del progetto indipendentista. La regione tornava, così, ai “confini” del 2003, lacerata da una crisi profonda che rischiava di mettere in dubbio la sua stessa coesione. Sul fronte siriano, invece, la vittoria ottenuta dalle Forze Democratiche Siriane (SDF) a Raqqa (ottobre 2017) inaugurava la fase finale della campagna contro IS, ma anche un nuovo capitolo dello scontro con Ankara, da sempre ostile al radicamento di una realtà considerata come una mera estensione del Partito Curdo dei Lavoratori (PKK) lungo i propri confini meridionali. Dopo aver sottratto alle SDF il cantone di Afrin nel marzo 2018 e aver minacciato lo scontro diretto con lo storico alleato americano qualora esso non avesse rivisto la propria politica nell’area, Erdogan incassava, nel dicembre dello stesso anno, la promessa dell’Amministrazione Trump di ritirare i propri contingenti di stanza a est dell’Eufrate. Una mossa considerata da molti come una sorta di “via libera” ai piani di Ankara e come l’ennesima dimostrazione dell’incostanza di Washington, pronta a sacrificare i propri alleati occasionali (le SDF) sull’altare di interessi considerati prioritari (la partnership con la Turchia). Per quanto determinanti, però, sarebbe però errato imputare la responsabilità della crisi che ha investito le comunità curde siro-irachene a soli fattori esterni. Dietro un’apparente facciata di unità, infatti, esse hanno dovuto fare i conti con agende interne profondamente divergenti e con un sistema di relazioni esterne profondamente articolato e segnato da visioni confliggenti, che spesso hanno finito col segnare in maniera determinante la loro libertà d’azione.
2019
Italiano
Plebani, A., Quale futuro per i curdi dalla Siria all'Iraq, <<VITA E PENSIERO>>, 2019; 2019 (2019/3): 16-22 [http://hdl.handle.net/10807/150094]
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